Il 9 giugno saranno vent’anni dal referendum con cui si verificò lo smottamento che sarebbe poi diventato “grande slavina”, per usare il titolo di un bel saggio di Luciano Cafagna. E’ un anniversario che merita di essere celebrato: non solo per ricordare da quanto tempo il paese balla sul tapis roulant di una “transizione” senza fine; né solo per deplorare l’occasione mancata (prima del dilagare delle inchieste giudiziarie) dell’autoriforma della Repubblica. Anche per fare un bilancio, ora che si profilano altri referendum, un’altra “stagione dei sindaci”, e secondo molti un’altra transizione.
Difficile non inquadrare questo bilancio nella categoria dell’eterogenesi dei fini. Segni e i suoi alleati perseguivano la semplificazione del sistema dei partiti, un rapporto più diretto fra eletti ed elettori, l’elezione popolare degli esecutivi, la democrazia dell’alternanza. L’unico obiettivo centrato (forse) è quest’ultimo, anche se il merito, più che dei sistemi elettorali, è della caduta di ogni conventio ad excludendum. E non si dica che la colpa è del Porcellum: si formarono col Mattarellum, come del resto aveva previsto Giovanni Sartori quando lo battezzò, le rendite di posizione su cui, a destra e soprattutto a sinistra, prosperarono tanti partitini; mentre con la legge Calderoli, che pure ha ridotto a cinque le forze rappresentate in Parlamento, i partitini sono nati e nascono come i funghi.
L’eterogenesi dei fini potremmo spiegarla con tante technicalities: i difetti e le contraddizioni dei sistemi elettorali centrali e periferici; la rinuncia a modificare la forma di governo mentre invece si introducono a spizzico “elementi di federalismo” nella forma di Stato; la resa al circo mediatico-giudiziario, tutelato o aggredito secondo convenienza, ma mai affrontato in un’ottica di riequilibrio fra i poteri istituzionali. Ma aggiungere inchiostro ad inchiostro non servirebbe a molto.
Serve invece prendere atto che il giocattolo progettato vent’anni fa si è rotto, e che non è facile rimetterne insieme i pezzi. Il centrodestra, vera novità di un sistema politico che per mezzo secolo ne aveva fatto a meno, subisce le conseguenze del saturnismo del suo fondatore e del doroteismo dei suoi stati maggiori. Ora, come in tutti i crepuscoli, c’è chi parla di un “ritorno al futuro” ed agli immortali princìpi del 1994; ma se questi obiettivi verranno perseguiti con lo stesso acume con cui si è stati capaci di disperdere la maggioranza schiacciante del 2008 il tramonto è assicurato.
Quanto al centrosinistra, dopo le radiose giornate di maggio, deve ancora dimostrare di essere portatore di un’alternativa “affidabile, credibile e praticabile”, per usare le parole di Antonio Giolitti rievocate recentemente dal presidente Napolitano. Anche le rose di maggio, fra l’altro, hanno le loro spine. Se infatti si assume come paradigma virtuoso quello di Torino (dove ha vinto il candidato designato con le primarie ed espresso dal partito maggiore della coalizione), è facile osservare che a Milano ha vinto il candidato designato con le primarie a dispetto del partito maggiore della coalizione; a Napoli un candidato estraneo addirittura alla coalizione; e a Bologna un candidato che ha ceduto dieci punti percentuali ad un’improvvisata lista antipolitica. Non c’è male, per un partito che voleva essere il “timone riformista” di una gauche plurielle.
Anche in questo caso è inutile ripetere le solite litanie sulla “fusione a freddo” da cui è nato il PD e sulla plastica con cui è stato confezionato il PDL. La tara della seconda Repubblica è genetica, e dipende dal carattere traumatico del parto di vent’anni fa. A destra ha prodotto mutazioni piuttosto bizzarre: non solo “garantisti” che varano micidiali “pacchetti sicurezza”; addirittura “federalisti” che i ministeri, invece che abolirli, li vogliono decentrare. Ma anche a sinistra non si scherza: come quando, dopo averne minato vent’anni fa le basi materiali, si inneggia alla “Costituzione più bella del mondo” e si strepita in difesa delle forme più obsolete della democrazia parlamentare.
Alla seconda Repubblica, in realtà, è mancata una capacità di “narrazione”: non di quella affabulatoria di Nichi Vendola; di quella, più convincente, cui si è riusciti in qualche modo a dar vita a proposito dell’Unità nazionale. Non c’è una “narrazione” di destra, tanto che quando inopinatamente i berlusconiani azzardano una campagna elettorale ideologica e “militante” finisce come a Milano; ma non c’è nemmeno una “narrazione” di sinistra, se non quella che si richiama all’età dell’oro dei governi di unità antifascista ed evita di confrontarsi coi cinquant’anni successivi.
Sotto traccia, per la verità, altre “narrazioni” non mancano, da quella per cui l’esclusione del PCI dai governi ha costituito un vulnus della legalità repubblicana, a quella che descrive Moro e Berlinguer come promessi sposi: ma sono “narrazioni” ineffabili, riservate all’inconscio ed alle sue divagazioni oniriche, mentre l’alternativa affidabile, credibile e praticabile va progettata da svegli.
Perciò il ventennale del referendum sulla preferenza unica va celebrato: per riaprire una discussione sul sistema politico che consenta non solo di archiviare quello che va archiviato, ma anche di riprendere le fila di un disegno riformatore che vent’anni fa, nonostante le migliori intenzioni dei referendari, prese l’abbrivio con una falsa partenza. Tanto meglio, poi, se questa volta si procederà secondo logica, anteponendo alle riforme elettorali un confronto sull’identità della Repubblica e sull’adeguatezza delle sue istituzioni: si eviterà, come dicono a Napoli, di mettere la carne sotto e i maccheroni sopra.
LUIGI COVATTA
Articolo pubblicato da “Il Riformista” il 5 giugno 2011.
Ottima analisi. Aggiungerei solo che le rendite di posizione dei partitini erano l'unica strategia di sopravvivenza nei confronti del partito egemone, quello che "dava le carte" disponendo del diritto di vita e di morte delle forze minori. Inoltre, coloro che pensarono questa semplificazione del sistema politico non furono guidati da astratti principi politologici o dall'interesse del Paese. Essi avevano ben chiaro che il soggetto concreto intorno a cui avrebbe dovuto aggregarsi la sinistra era il partito post-comunista: già dalla nascita non era prevista una forza socialista-socialdemocratica egemone nella sinistra. Berlusconi andò a ricoprire il ruolo simmetrico a quello dei post-comunisti nello schieramento di centro-destra, colmando il vuoto lasciato dalla disgregazione della DC, per la quale quel ruolo originariamente era stato previsto.
RispondiEliminaNicolino Corrado