martedì 19 aprile 2011

LA VIA ANAGRAFICA AL POTERE

Caro Ministro Meloni,
il ddl costituzionale presentato su tua iniziativa ed approvato dal Consiglio dei Ministri in questi giorni che prevede l’equiparazione dell’elettorato attivo e passivo è un primo passo per cercare di abbattere la gerontocrazia nel nostro Paese.
Ti do atto che ridurre il limite di età oggi in vigore per essere eletti in Parlamento, a 25 anni per la Camera e 40 per il Senato, portandoli rispettivamente a 18 e 25, è una iniziativa che avvicina l’Italia a molte democrazie europee.
Tuttavia mi corre l'obbligo di porre un semplice quesito.
A cosa servirà avere il diritto di potere essere eletti alla Camera dei Deputati a 18 anni ed al Senato della Repubblica a 25, se ancora oggi in Italia si vota con una legge elettorale ai limiti della costituzionalità e che comunque permette soltanto ai segretari di partito di decidere i propri candidati negando ai cittadini ed alle nuove generazioni di esercitare la propria opinione con il voto di preferenza?
Mi auguro che vorrai condividere con me le perplessità relative ai gravi limiti di tale legge che, alla base, inficia il rapporto tra giovani ed istituzioni nonché  la reale partecipazione dei giovani alla vita culturale e politica del Paese.
Caro Ministro, non nutro dubbi sulla bontà della tua proposta che tuttavia dovrebbe essere accompagnata da un ddl che preveda l'introduzione del voto di preferenza nell’attuale legge, non a caso definita dal suo stesso redattore “una porcata”.
Cordialmente
LUIGI IORIO
Segretario Nazionale Giovani Socialisti

domenica 17 aprile 2011

INCULCARE

Il verbo “inculcare” andrebbe maneggiato con  cura da parte di chi ha fondato le proprie fortune economiche, politiche e (perché no?) culturali sull’uso innovativo del mezzo televisivo. Buona parte degli italiani, infatti, pensa che sia stato lui ad “inculcare” valori e disvalori negli ultimi trent’anni. E poco importa che Berlusconi abbia “inculcato” con la stessa consapevolezza con cui Monsieur Jourdain parlava in prosa. Importa di più, semmai, che si sia illuso di “inculcare”: non avendo colto, per dirla con Alberto Abruzzese, che proprio grazie alla sua “neo-TV” (quella “in cui Ferrara come Santoro, Costanzo come Guglielmi, Sgarbi come Lerner, Ghezzi come Ricci, Funari come Pannella, Mentana come altri ancora sono stati le voci di una forma di comunicazione sempre più sradicata dalle regole connaturate al precedente modello di TV”)  non si poteva più “inculcare” nulla, ma solo distruggere il “legame razionale e preordinato, contrattato e legittimato, tra macchina del potere costituito -costituzionale?-e   apparati dell’informazione” (Elogio del tempo nuovo, Genova 1994).
Di questo varrebbe la pena di discutere, a destra e a sinistra, invece di tessere l’elogio della maestrina dalla penna rossa o di proporre commissioni di censura sui libri di testo. Come varrebbe la pena di discutere, a proposito di famiglia e scuola pubblica, dell’episodio della bella Jasmina che ha commosso l’opinione pubblica proprio mentre Berlusconi parlava all’associazione delle mamme (ma esisterà davvero?). Sicuramente, in quel caso, la scuola ha “inculcato” nella giovane pachistana valori diversi da quelli della sua famiglia. Ma siamo sicuri che nella società multietnica non ne valga la pena, e che si debbano invece favorire le madrasse di ciascuna etnia e di ciascuna tribù?     
LUIGI COVATTA

martedì 12 aprile 2011

E' MORTO ALESSANDRO SCANSANI

“Non sono mai stato comunista, per cultura; sono stato duramente antifascista, con rispetto attuale per Fini; coscientemente repubblicano, e socialista municipale”: così si descriveva in uno dei suoi ultimi scritti Alessandro Scansani, che è morto ieri. Nel 1988, insieme con Giuliana Manfredi, aveva fondato la casa editrice Diabasis, il cui catalogo riflette la sua curiosità intellettuale, la sua raffinatezza culturale, la sua libertà esistenziale. Lo avevo conosciuto nei primi anni '80, quando insegnava lettere al liceo, animava un “Istituto Emmanuel Mounier”, e militava nel PSI di Reggio Emilia. Avevo poi seguito il lavoro della sua casa editrice, prezioso non solo per lo scavo nelle culture marginali che essa conduceva, ma anche per la riproposizione di classici del pensiero politico ormai desueti dopo l'orgia italocomunista degli anni '70 (per esempio Tocqueville). Mi onorava ancora della sua amicizia, ed apprezzava il nostro lavoro. Ma come tutti gli uomini grandi (che non sono necessariamente granduomini) presidiava un crocrevia di culture, di sensibilità, di esperienze diverse fra loro. Anche per questo mi piace ricordarlo pubblicando di seguito le parole con cui lo ha salutato Pierluigi Castagnetti, dal quale dissento su tante cose, ma non sulla stima e l'affetto per Sandro.    
LUIGI COVATTA 

 "La scomparsa di Alessandro Scansani mi addolora moltissimo per tante ragioni. Siamo diventati adulti insieme, seppur attraverso strade diverse, dopo avere lavorato nel centro diocesano dei giovani di Azione Cattolica molti anni fa. Lui era allora cattolico e socialista, cattolico conciliare e socialista riformista. Sempre entusiasta della vita e fiducioso nel futuro. Una ne faceva e due ne pensava. Scriveva molto bene, insegnava con passione, sino a quando, insieme a Giuliana Manfredi, si inventò quel gioiello di casa editrice che è Diabasis, la qualità delle cui pubblicazioni è riconosciuta pressoché da tutti gli esperti - ne ho avuto personalmente varie testimonianze - tra le più pregiate. Sempre alle prese con le difficoltà finanziarie, come è frequente nel settore, non si è mai arreso, coinvolgendo e convincendo persone più disparate. Era un artigiano d’altri tempi, un artista, divenuto imprenditore. Lavorando sempre in solitudine, di fatto. Incompreso e isolato da troppi che avrebbero dovuto riconoscere che quella piccola-grande casa editrice è un pezzo singolarissimo e prezioso della Reggio che produce cultura".

Pierluigi Castagnetti

lunedì 11 aprile 2011

LE MANETTE IN PARLAMENTO

Che Alberto Tedesco sia stato un dirigente del PSI non mi interessa. Che sia colpevole o no lo stabilirà un processo. Che invece debba essere arrestato prima del processo è inammissibile. Non può più inquinare le prove. Non può più reiterare il reato. Difficilmente potrebbe fuggire. Nel suo caso, cioè, non si riscontra nessuna delle tre condizioni che giustificano la custodia cautelare. Per di più il Senato è chiamato a decidere dopo un anno dalla richiesta della Procura, formulata peraltro alla fine di una lunga inchiesta e non quando avrebbe potuto effettivamente evitare l’inquinamento delle prove e la reiterazione del reato. 
Un Parlamento degno di questo nome respingerebbe la richiesta d’arresto all’unanimità. E non solo perché questa volta il fumus persecutionis è evidente. Perché va sanzionata una prassi che, anche con l’anticipazione della pena alla condanna, sembra non finalizzata all’accertamento della verità ed al controllo di legalità, ma al “riconoscimento politico” ed al “controllo di virtù”, come diceva Alessandro Pizzorno una decina di anni fa.
Questo “riconoscimento”, peraltro, la politica è ben pronta a concederlo, perché a sua volta ha ormai interinato le nuove regole del gioco, e va cercando un “riconoscimento” presso l’opinione pubblica. Si spiega così il gesuitismo della maggioranza, che a bella posta stila un parere suicida per salvare al tempo stesso la capra del garantismo peloso e i cavoli del Cavaliere, che non vede l’ora di avere compagni al duol in partibus infidelium; e così si spiega il microstalinismo dell’opposizione, disposta a sacrificare la libertà di un suo rappresentante per non entrare in contraddizione con la via giudiziaria alla deberlusconizzazione che sciaguratamente ha scelto. Se qualcuno non ha ancora capito perché in Italia l’amministrazione della giustizia ha bisogno di una riforma di sistema (e non di leggi, o di procedure, ad personam), col caso Tedesco è servito.  
LUIGI COVATTA     

giovedì 7 aprile 2011

MILANO, QUARANTA GIORNI AL VOTO

Bisogna uscire da un certo impasse psicologico e dire che parlare politicamente di Milano in ambito nazionale è diventato sempre più difficile. Per diverse le ragioni, diversamente addotte.
Certo l’Italia considera Milano “casa” del berlusconismo. Cosa che trasforma in altro la specificità della situazione politica milanese. Milano poi, va detto, è meno simpatica di un tempo di un tempo agli italiani (salvo a coloro che la scelgono per lavorare e studiare, il che sarebbe un argomento forte di racconto). Appunto perché Milano è mal raccontata fuori dalla sua mitologia e dai suoi stereotipi. Le trasformazioni infatti contengono il nuovo bene e il nuovo male e dunque non bastano i media (centrati su notizie ed eventi, raramente su “processi”) a decifrarne il senso. Per tutte queste ragioni, tuttavia, il voto di maggio a Milano è interessante. Per i milanesi, per gli italiani e per l’Italia. Varie ipotesi si possono fare.
Rivince la Moratti?
Rispetto alla prima volta vi sono alcuni cambiamenti sonanti:
- la Moratti, per sua scelta, non è più “distante” dai partiti della sua coalizione, cosa che la configurava espressione della società civile che a sua volta ha, in parte, preso le distanze da lei;
- la sua coalizione – come a livello nazionale – ha perso alcuni tasselli (tra cui il presidente del Consiglio comunale che guida le liste del terzo polo in evidente dissenso), pur lasciando in coalizione le componenti già di  AN  più radicate nel voto delle periferie;
- la Lega conterà un terzo in più delle volte precedenti e ciò è assolutamente decisivo  in ordine alla formazione della nuova coalizione, caratterizzando un profilo più conflittuale con gli interessi borghesi cosmopoliti della città;
- la componente dell’UDC che la Moratti ha in giunta (e che vorrebbe restarci) è parte di un sistema di alleanze che, complessivamente, rema dall’altra parte o comunque contro (si contenderanno gli stessi bacini elettorali, riducendo così la “politicità” di questo apporto;
- l’Expo è stato conseguito dalla Moratti (segno +) ma di Expo si parla solo da due anni per segnalare infinite criticità gestionali (segno -);
- la macchina comunale è scontenta, irritata per nomine irrituali e portata a condizioni di minore efficienza;
- la questione sicurezza si è trasformata dall’emergenza migrazioni e microcriminalità in accerchiamenti mafiosi.
Per l’evidenza di questa analisi il premier Silvio Berlusconi – dopo un ponderato esame della questione con molti argomenti sollevati contro dal suo entourage – ha ritenuto di tornare per la quarta volta a guidare le liste del suo partito alle elezioni amministrative (le altre tre volte poi naturalmente sparendo dalla vita di Palazzo Marino) nell’ipotesi che la Moratti possa non farcela al primo turno rischiando moltissimo in sede di ballottaggio.
Per stressare la situazione elettorale al primo turno Berlusconi adotterà la sua tecnica di imporre il referendum pro o contro se stesso. La questione – viva nel suo stesso quartier generale – è se oggi questa demilanesizzazione della campagna, con un Berlusconi accreditato di consenso personale di poco superiore al 30% (Mannheimer),  non rischi di irritare moderati e indecisi producendo danni alla coalizione di centro-destra.
A buoni conti la campagna della Moratti è partita massiccia, professionale, finta e vera, in mezzo alla gente (nella pubblicità) ma con rendicontazione allineata all’idea che – salvo catastrofi – a un sindaco “di prestigio” si concede naturalmente anche il bis. 
Si afferma o non si afferma il terzo Polo?
Se esso si affermerà sarà perché la somma di API, FLI e UDC da un lato arriverà a sfiorare il 10% e dall’altro lato avrà comportamenti politici univoci. Ipotesi allo stato non sostenuta dai sondaggi. Solo strappando un grande successo, infatti, i tre partiti avranno l’obbligo di comportarsi da “terzo polo” e di mantenersi come soggetto politico globalmente autonomo, in grado di agire nel prossimo consiglio comunale con iniziativa comunque critica e indipendente. Soprattutto trovando una leadership che al momento di avvio della campagna elettorale è stata trovata ad una soglia non di “sicurezza” ma di “investimento”.
Se verrà dichiarata la “non affermazione” ciò sarà perché le tre liste (UDC, FLI e API insieme, più una civica) approderanno attorno al 6% (indicazione attuale dei sondaggisti), lasciando intravedere che la libertà lasciata agli elettori al secondo turno si traduca per metà in urne disertate e per l’altra metà in un voto spaccato a sostegno della Moratti (parte dell’UDC) e a sostengo di Pisapia (parte degli altri), con frammentazioni lista per lista.
Una sorta di auto-neutralizzaizone politica di un soggetto che non ha avuto il tempo per maturare un’evoluzione più consistente e programmata.
Ci sarà la sorpresa Pisapia?
Giuliano Pisapia – malgrado l’etichetta vendoliana che gli viene appiccicata dalla stampa di destra – è figlio di una rilevante famiglia borghese di Milano (padre celebre avvocato e professore universitario liberale, madre cattolica) e ha una vasta reputazione come legale. Come parlamentare è stato considerato indipendente (pur schierato a sinistra), portatore di battaglie civili interessanti e con convincimenti anche controcorrente (carriere separate dei giudici). Si è messo in ascolto di mondi diversi (donne, cattolici, sistema di impresa) e ha aperto un fianco al dialogo con una società borghese moderata che vuole il cambiamento non per ideologia tra destra e sinistra ma per riportare Milano nel mondo (un gruppo di iniziativa guidato da Piero Bassetti, presidente fondatore della Regione Lombardia). Ha battuto alle primarie il candidato del PD e questo gli provoca ulteriore indipendenza dai partiti e gli ha fatto trovare il consenso di liste minori (radicali, verdi, socialisti). L’establishment milanese ancora scuote la testa. Dice che non ce la farà. Dice che è debole, con fragile programma. Ma lui cresce ogni giorno. Promuove ascolto e dimostra non prevenzione ideologica.
Se perderà sarà in linea con le sconfitte ormai ventennali della sinistra. E lo sarà perché la “sinistra” è brand perdente rispetto alla maggioranza degli italiani oggi. Se perderà al ballottaggio, comunque, avrà l’onore delle armi che non hanno avuto i suoi predecessori.
Ma se vincerà se ne accorgerà l’intero paese – come se ne sarebbe accorto se Emma Bonino avesse vinto le regionali nel Lazio – per svariate ragioni.
Innanzitutto un segnale di ricomposizione del concetto di centro-sinistra con un PD che conta (trovando quindi il suo ruolo in una coalizione davvero plurale) ma non risolve, offrendosi inoltre– nella guida della città – come baricentro di questa pluralità politica rispetto al rafforzarsi di ruolo della società civile e dell’associazionismo, fonti di ampliamento e qualificazione della classe dirigente pubblica.  Obbligherà un sistema politico al nord mugugnante e rinunciatario a sviluppare rapidamente programmi di governo e classe dirigente adeguata a problemi di terzo millennio. Una partita difficile e rischiosa, che induce  a coraggio, non a vincoli di lottizzazione.
Che tutto ciò abbia proiezione sul quadro nazionale è chiaro. L’ eventuale sconfitta della Moratti e di Berlusconi in campo in prima persona a Milano rende tale contesto lampante. Ma questa idea trattiene, ovviamente, un pezzo del moderatismo indeciso milanese.
Un successo probabilmente metterebbe in movimento anche partite ora congelate ma scricchiolanti non solo a sinistra (la relazione critica tra Formigoni e la Lega, l’impasse della posizione del presidente della Provincia Podestà rispetto alla concezione della città di Milano propria della Moratti).
Quanto ai socialisti essi sono ora vera diaspora diffusa, tra radicamenti anticomunisti nel centro-destra, piccoli interstizi nel terzo polo, partecipazione all’area civica di Pisapia, e addirittura con un entrismo – in controtendenza – nelle liste del PD. Una condizione di governo metterebbe una buona parte di queste risorse in condizioni di portare esperienza e cultura di governo anche al di fuori del problema utopistico della ricostituzione partitica. Dunque un passaggio dalla nostalgia alla pluralità democratica rispettosa di alcune tradizioni di cui a Milano proprio i socialisti sono i maggiori portatori. 
STEFANO ROLANDO