venerdì 25 marzo 2011

DORMEUSES

A Roma, in via Tomacelli, c’era la storica libreria di Mondoperaio. Negli anni ’90 subentrò Il Manifesto. Poi il negozio venne affittato a una fabbrica di poltrone. Ora in vetrina ci sono soprattutto dormeuses. Che sia una metafora delle vicende della sinistra italiana fra prima e seconda Repubblica?
GIULIA GIULIANI

giovedì 24 marzo 2011

IL NOSTRO TEMPO E' ADESSO

“Il nostro tempo è adesso” con questo imperativo, un gruppo di precari organizzatosi in rete si ribella all’attuale mondo del lavoro fatto di: ingiustizie sociali, diritti negati, precarietà e disoccupazione. Una generazione che non si arrende, anzi, lancia un appello rivolto a tutti gli sfruttati, sottopagati a scendere in piazza sabato 9 aprile, riappropriandosi del proprio tempo e rivendicando i propri diritti. La situazione italiana infatti è preoccupante. Secondo i dati “Istat ”, il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è salito al 29%, con un aumento di 0,1 punti percentuali rispetto a dicembre 2010 e di 2,4 punti percentuali rispetto a dicembre 2009, segnando così un nuovo record negativo. Si tratta, infatti, del livello più alto dall’inizio delle serie storiche mensili, ovvero dal gennaio del 2004. Ad oggi in Italia il numero degli inattivi sale a 14 milioni 933 mila unità, tenendo conto inoltre che a fine 2010 più di 395 mila posti di lavoro sono andati in fumo. Più della metà di questi disoccupati risulta non aver superato il 30esimo anno di età. Le nuove generazioni hanno immediatamente bisogno di riforme economiche e sociali, ma la politica al momento arranca. Liberalizzazioni in economia, abolizioni di caste,corporazioni ed ordini professionali . I giovani sono ormai stanchi dei soliti spot politicisti in loro favore. Non va inoltre dimenticato il fenomeno dei “giovani cervelli” italiani che, cercano sempre più la propria fortuna ed il proprio futuro all’estero, come evidenziato anche settimane fa da nota rivista americana “Time”. Architetti, manager, ricercatori molti dei quali obbligati ad abbandonare i propri affetti pur di trovare una collocazione stabile nel mondo del lavoro. L’Italia si dimostra ancora una volta agli occhi del mondo: un Paese nel quale la parola merito, soprattutto in campo lavorativo, è sopraffatta dalla parola clientelismo. In Italia, l’ascensore sociale bloccato ostruisce un libero ingresso nel mondo del lavoro, il tutto acuito da lobby e corporazioni – come quelle di notai, avvocati, commercialisti - che permettono l’accesso al mondo del lavoro soltanto ai figli dei figli, per discendenza diretta. E’ giunto il nostro momento, il momento di riappropriarci del nostro presente. L’attuale Governo, oltre ad aver perso l’iniziativa politica, ammesso che mai l’abbia avuta, è troppo impegnato ad approvare la legge sulla giustizia, allontanandosi progressivamente dai problemi reali dei cittadini. Su questi temi è giunto il momento che le sinistre trovino delle soluzioni, attraverso idee condivise, ma soprattutto superando diffidenze ideologiche, dando priorità ad un alternativa reale di Paese, che può realizzarsi evidentemente soltanto mediante un riassetto della sinistra italiana da anni deflagrata. Un primo passo potrebbe essere compiuto proprio a livello giovanile, infatti a tal proposito, sarebbe opportuno che al prossimo congresso dell’Ecosy, che si terrà dal 31 marzo al 1 aprile a Bucarest, tra le delegazioni italiane vi partecipasse anche una delegazione di giovani di “sinistra ecologia e libertà” al fine di ampliare anche in Italia, partendo proprio da un contesto europeo, la famiglia del socialismo, quel socialismo che potrebbe essere una vera alternativa al berlusconismo. Inoltre proporremo in quella sede di promuovere di concerto con i Giovani democratici - anch’essi insieme alla FGS co-fondatori della Ecosy – uno specifico ordine del giorno per far comprendere all’ Europa la grave emergenza 
sociale italiana.                                                     
LUIGI IORIO
Segretario Nazionale dei Giovani Socialisti














domenica 20 marzo 2011

PESI E MISURE

La storia di quella signora di piccola virtù che giustificò la nascita di un bambino fuori dal matrimonio dicendo “ma in fondo è così piccolo” è un evergreen anche in tempi di libertinismo. Mi è venuta in mente ieri leggendo, a p. 21 della Repubblica, l’articolo di Liana Milella sulle tesi del segretario dell’ANM Giuseppe Cascini, “che va a un convegno […] per sostituire il presidente dei giudici Luca Palamara”, e “fa un lungo ragionamento sulla riforma, che si riduce sulle agenzie a una frase che, alle 13 e venti, scatena il putiferio" :una frase, si potrebbe dire, “così piccola” rispetto alla lunghezza del ragionamento.
Nella pagina successiva, però, a proposito delle notti di Arcore “spunta anche un video-hard”, come recita il titolo. Si tratta di “un filmato File Img, durata 00’01, e viene ripreso un atto sessuale completo”, peraltro “risultando impossibile identificare i soggetti interessati”, come riportano dal brogliaccio dei questurini, senza commenti e con apprezzabile rigore filologico, Piero Colaprico ed Emilio Randacio. Anche l’atto sessuale “completo”, se consumato in un secondo, è “così piccolo”. Senza dire che se “i soggetti interessati” fossero identificabili uno dei due al massimo potrebbe essere indagato per ejaculatio praecox, fenomeno diffuso, ma (per ora) non penalmente rilevante.
LUIGI COVATTA

lunedì 14 marzo 2011

CROCE E DELIZIA DI SAVIANO

Sono nato nell'isola d'Ischia, e quindi -anche se fra foriani e casamicciuoli c'è una bella differenza- sono discendente degli sciacalli che secondo Roberto Saviano nel 1883 barattarono con cento lire (di allora) la vita del giovane Benedetto Croce. Questa volta sono io ad essere indignato. E la pezza a colore con cui ieri sera al TG della 7 lo scrittore casalese ha cercato di giustificare la gaffe è come al solito peggio del buco. Possibile che uno scrittore non abbia colto la metafora iperbolica di quella “centolire” evocata dal padre di don Benedetto mentre moriva sotto le macerie? E possibile che non sappia, visto che si diletta di storia, che in quel terremoto morirono, oltre ad un centinaio di villeggianti, almeno seimila indigeni? Morirono perchè non avevano soldi a sufficienza per corrompere i loro concittadini? “Vieni via con me”, invita Saviano. Ma vada via con qualcun altro, per quello che mi riguarda.  
LUIGI COVATTA

mercoledì 9 marzo 2011

IL NOSTRO LETTORE IDEALE

Due anni fa, quando misi mano alla nuova serie di questa rivista, avevo in mente persone come lui. Non in quanto collaboratore (era già malato). In quanto lettore. Francesco Barocelli infatti rappresentava per me l'idealtipo del pubblico a cui volevo rivolgermi. Da giovane era stato il sindaco socialista di Noceto, vicino Parma. Poi aveva seguito la sua vocazione di storico dell'arte: sempre con discrezione, benchè professionalmente fosse tanto apprezzato da aver meritato, qualche anno fa, la segnalazione di Flavio Caroli come "miglior critico dell'anno" nella classifica del "Giornale dell'Arte".
Dal 1983 era funzionario del Comune di Parma, e solo negli ultimi anni aveva avuto l'opportunità di  intrecciare il suo lavoro con la sua vocazione, quando gli era stato chiesto di riordinare e dirigere la Pinacoteca Stuard, una delle tante perle nascoste della sua città.
Come molti di noi, invece,  dopo lo scioglimento del PSI non aveva avuto l'opportunità di proseguire nel suo impegno politico. E se ne rammaricava, insodddisfatto com'era dell'offerta politica  della seconda Repubblica. Era un compagno che non aveva niente da chiedere (a me non aveva mai chiesto niente neanche quando occupavo posizioni di potere nel suo campo professionale). Voleva solo poter continuare a discutere coi suoi e nostri compagni qualunque fosse stata la scelta da ciascuno operata nella "diaspora". Perciò era il nostro lettore ideale. Ed ora che è morto a soli 58 anni questa rivista ha perso un lettore.
LUIGI COVATTA

CHI HA IL DIRITTO DI CELEBRARE I 150 ANNI DELL’UNITA' D’ITALIA?


In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, quasi timorosamente festeggiati, val la pena di chiedersi se e cosa vi sia da festeggiare, e chi abbia il diritto di farlo. E, quando si pensi di fare un raffronto tra l’attuale classe dirigente (politica e non) e quella che un secolo e mezzo fa guidò il processo unitario, non si può che esser colpiti dall’abisso che passa, in termini di ampiezza di vedute, di rigore concettuale, di capacità di guardare oltre le Alpi, tra quella di allora e quella di oggi. Per la prima volta in Italia si era andata costituendo una classe dirigente che seppe impostare una politica nazionale, non nazionalista e non provinciale, fondata su un riformismo dai tratti rivoluzionari, ponendo lucidamente la questione nazionale non solo in termini di unificazione e di indipendenza, ma anche in termini di modernizzazione, di rapporto con l’Europa, e di rescissione dei legami culturali e politici con l’Ancien Règime e con la società postfeudale.
Perché il processo unitario italiano, che oggi concordemente viene vilipeso dai nuovi trinariciuti prealpini, dai neoborbonici del Sud, e dai nostalgici di Francesco Giuseppe e della Grossdeutschland, si caratterizzò solo in parte, e non quella essenziale, come un fenomeno di unificazione territoriale (o di conquista, come oggi dicono alcuni).
Prima ancora, e nei suoi presupposti, fu un processo di liberalizzazione e di modernizzazione, senza le quali nessuna unificazione sarebbe stata possibile se non come annessione dinastica o militare o sotto la forma della federazione teocratica ed estesa all’intera penisola preconizzata da Gioberti: comunque, in termini tali da non trasformare gli assetti postfeudali dell’Italia preunitaria. Il Piemonte aveva aperto la strada della modernizzazione già negli anni precedenti l’Unità, accreditandosi come sua guida culturale e politica, prima ancora che militare e dinastica: lo Statuto aveva iniziato a separare e bilanciare i poteri ed a garantire spazi iniziali di libertà e di partecipazione; le riforme economiche di Cavour, ispirate ai modelli del liberalismo empirico britannico, avevano iniziato ad ammodernare il mondo agricolo; le leggi Siccardi (1850-51) e Rattazzi (1855) avevano abolito i privilegi della Chiesa come ordine separato;  la legge Casati (1859-60) aveva introdotto il principio della Scuola pubblica di Stato e sottratta al monopolio eccclesiastico; l’esercito costituiva una forza militare capace di combattere e non solo di parate e di operazioni di polizia; l’uso appropriato ed oculato del denaro pubblico, non destinato unicamente alla rappresentanza dei fasti della Capitale consentiva un più equilibrato rapporto tra centro e periferia e la creazione di infrastrutture e vie di comunicazione avveniristiche (la ferrovia dei Giovi venne inaugurata nel 1854, ed i lavori del traforo del Frèjus iniziarono nel 1857). Nel giro di pochi anni vennero create le premesse culturali, politiche e materiali di uno Stato moderno, e si seppero tagliare i legami con una tradizione che risaliva alla Controriforma.
E, non ultimo ed ancor più significativo fatto, specie se osservato dagli italiani di oggi, che vedono le logiche tribali farsi strada nella politica e nella cultura diffusa, il Parlamento sabaudo e preunitario seppe essere già Parlamento Nazionale, vedendo numerose presenze di esuli degli altri Stati preunitari della penisola.
Guardando a questa fase della nostra storia, e cercandovi un tratto conduttore in rapporto con gli sviluppi successivi, mi pare significativo il fatto che quella classe dirigente si sia costituita attorno ad alcune idee-guida, non tutte ancora sviluppate a pieno, ma dalle quali sono derivate nei 150 anni successivi, tutte le manifestazioni di sviluppo economico e di progresso civile e sociale; ed il cui venir meno ha per contro improntato fasi e fenomeni di stagnazione ed arretramento. E si tratta di: concezione europea, etica pubblica, predominio della legge, Stato laico, visione unitaria e non provinciale delle questioni del Paese, istruzione pubblica e diffusione della conoscenza, estensione e generalizzazione progressiva, nonostante contrasti e resistenze, di diritti e libertà, lotta alle corporazioni ed ai privilegi. Indirizzi che poi, quasi cent’anni dopo, hanno trovato una più compiuta formulazione nella nostra Costituzione Repubblicana.
Osservando l’Italia di oggi, non possiamo non constatare come questa si sia profondamente allontanata da quelle idee-guida, e di come l’attuale classe dirigente non abbia nulla dell’ampiezza di vedute che caratterizzò l’avvio del processo unitario.
Oggi siamo governati da una maggioranza che si caratterizza e regge sul baratto tra gli interessi di chi non esita a stravolgere lo Stato di Diritto, cercando nella legge e nella magistratura addomesticate la propria impunità, e quelli di chi non esita ad irridere e minare la coesione territoriale del Paese cercando di tutelare gli interessi di una parte a discapito delle altre. E, sottostante a questi stravolgimenti, c’è una concezione di fondo che confligge con quelle idee-guida: basta ricordare come oggi vengano considerate l’etica pubblica, il principio della separazione dei poteri, l’austerità delle forme e dei bilanci, la concezione laica dello Stato, la scuola pubblica, i rapporti internazionali ed una costruzione europea vissuta con fastidio e sufficienza. 
Non c’è allora da stupirsi se l’anniversario dei 150 anni dell’Unità del Paese appaia alla maggior parte dei nostri governanti come un giorno da celebrare senza eccessiva enfasi: troppo raccapricciante il confronto tra Cavour e Papi col fazzoletto verde, e troppo imbarazzante il confronto tra quell’apertura mentale, quell’ampiezza di vedute, quella capacità di porsi in una visione europea, e la miseria mentale e politica di una politica provincialmente ed antidemocraticamente impegnata nella propria autoriproduzione e nel servilismo nei confronti di un leader dedito prioritariamente alla tutela dei propri piaceri, dei propri interessi, della propria impunità, del proprio potere sovrano.
E non c’è da stupirsi se quei ministri leghisti che tolgono i finanziamenti ai malati di cancro per non far pagare le multe sulle quote latte agli allevatori disonesti dei loro collegi, e che impongono un simulacro di federalismo distruttivo come prezzo del loro sostegno, pur avendo giurato fedeltà alla Costituzione, non trovino nulla da festeggiare il 17 marzo.
E’ giusto che sia così, è giusto che questa gente si senta estranea o distante da questi festeggiamenti; non ne hanno il diritto: le loro parole assomiglierebbero troppo a quelle di Hitler in occasione dei funerali di Rommel. Quel che non è giusto, e che l’Italia onesta non merita, è di esser governata da gente simile.
Lasciamo allora che questa data sia celebrata da chi è coerente con il processo che ebbe avvio in quegli anni.
GIM CASSANO

venerdì 4 marzo 2011

FATTI, IDEOLOGIE E COSTRUZIONI

Il vecchio Freud scriveva che quelle che paiono delle “ricostruzioni” della nostra biografia sono in realtà costruzioni: legate, naturalmente, ai ricordi (e tutti sappiamo quanto essi siano soggettivi), ai fatti, alle fantasie, alle emozioni. Sul lettino dell’analista, per usare una metafora, non viene ordinato l’archivio; viene piuttosto creato un film.
A livello collettivo, di “film” ne abbiamo visti tanti. Vengono chiamati “visioni”, narrazioni, ideologie, grandi racconti. A volte si trattava di trame così rigide e così poco rispettose della libertà dell’individuo da venir confuse con il reale. E non si intravedeva altra possibilità se non la ripetizione del copione. Così in molti hanno “visto” a lungo il mondo diviso in due: capitalismo e socialismo reale. In seguito, delusi dallo schema, quello che sembrava un problema di meridiani è divenuto una questione di “paralleli”: la madre di tutti i conflitti è apparsa la frattura fra Nord e Sud del globo. Fino al risveglio dell’integralismo islamico, in seguito al quale altri ideologi hanno riproposto l’idea di uno scontro di civiltà.
E ancor oggi, dinanzi agli eventi imprevisti del nord-Africa e del vicino e medio-Oriente, fatichiamo a togliere gli occhiali delle nostre costruzioni. Così alcuni temono che a prevalere alla fine sarà lo spirito islamista, altri vagheggiano un “terzo mondo” finalmente liberale e democratico; tutti dimentichi della dimensione fondamentale per comprendere simili eventi: la complessità. Qui siamo dinanzi a vicende aggrovigliate, che si danno a noi nei loro mille volti. Possiamo coglierne tendenze, umori, novità, certo; ma pretendere di ridurle a schemi e formule sarebbe un errore clamoroso. Siamo di fronte a qualcosa di nuovo, a un fenomeno, a una nascita, e forse ciò ci angoscia, tanto da indurci a “difenderci” con “visioni” a loro modo rassicuranti.
E invece dovremmo convincerci di non avere in pugno il mondo, e neppure noi stessi. Navigare in mare aperto è un aspetto irrinunciabile della libertà.

DANILO DI MATTEO