In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, quasi timorosamente festeggiati, val la pena di chiedersi se e cosa vi sia da festeggiare, e chi abbia il diritto di farlo. E, quando si pensi di fare un raffronto tra l’attuale classe dirigente (politica e non) e quella che un secolo e mezzo fa guidò il processo unitario, non si può che esser colpiti dall’abisso che passa, in termini di ampiezza di vedute, di rigore concettuale, di capacità di guardare oltre le Alpi, tra quella di allora e quella di oggi. Per la prima volta in Italia si era andata costituendo una classe dirigente che seppe impostare una politica nazionale, non nazionalista e non provinciale, fondata su un riformismo dai tratti rivoluzionari, ponendo lucidamente la questione nazionale non solo in termini di unificazione e di indipendenza, ma anche in termini di modernizzazione, di rapporto con l’Europa, e di rescissione dei legami culturali e politici con l’Ancien Règime e con la società postfeudale.
Perché il processo unitario italiano, che oggi concordemente viene vilipeso dai nuovi trinariciuti prealpini, dai neoborbonici del Sud, e dai nostalgici di Francesco Giuseppe e della Grossdeutschland, si caratterizzò solo in parte, e non quella essenziale, come un fenomeno di unificazione territoriale (o di conquista, come oggi dicono alcuni).
Prima ancora, e nei suoi presupposti, fu un processo di liberalizzazione e di modernizzazione, senza le quali nessuna unificazione sarebbe stata possibile se non come annessione dinastica o militare o sotto la forma della federazione teocratica ed estesa all’intera penisola preconizzata da Gioberti: comunque, in termini tali da non trasformare gli assetti postfeudali dell’Italia preunitaria. Il Piemonte aveva aperto la strada della modernizzazione già negli anni precedenti l’Unità, accreditandosi come sua guida culturale e politica, prima ancora che militare e dinastica: lo Statuto aveva iniziato a separare e bilanciare i poteri ed a garantire spazi iniziali di libertà e di partecipazione; le riforme economiche di Cavour, ispirate ai modelli del liberalismo empirico britannico, avevano iniziato ad ammodernare il mondo agricolo; le leggi Siccardi (1850-51) e Rattazzi (1855) avevano abolito i privilegi della Chiesa come ordine separato; la legge Casati (1859-60) aveva introdotto il principio della Scuola pubblica di Stato e sottratta al monopolio eccclesiastico; l’esercito costituiva una forza militare capace di combattere e non solo di parate e di operazioni di polizia; l’uso appropriato ed oculato del denaro pubblico, non destinato unicamente alla rappresentanza dei fasti della Capitale consentiva un più equilibrato rapporto tra centro e periferia e la creazione di infrastrutture e vie di comunicazione avveniristiche (la ferrovia dei Giovi venne inaugurata nel 1854, ed i lavori del traforo del Frèjus iniziarono nel 1857). Nel giro di pochi anni vennero create le premesse culturali, politiche e materiali di uno Stato moderno, e si seppero tagliare i legami con una tradizione che risaliva alla Controriforma.
E, non ultimo ed ancor più significativo fatto, specie se osservato dagli italiani di oggi, che vedono le logiche tribali farsi strada nella politica e nella cultura diffusa, il Parlamento sabaudo e preunitario seppe essere già Parlamento Nazionale, vedendo numerose presenze di esuli degli altri Stati preunitari della penisola.
Guardando a questa fase della nostra storia, e cercandovi un tratto conduttore in rapporto con gli sviluppi successivi, mi pare significativo il fatto che quella classe dirigente si sia costituita attorno ad alcune idee-guida, non tutte ancora sviluppate a pieno, ma dalle quali sono derivate nei 150 anni successivi, tutte le manifestazioni di sviluppo economico e di progresso civile e sociale; ed il cui venir meno ha per contro improntato fasi e fenomeni di stagnazione ed arretramento. E si tratta di: concezione europea, etica pubblica, predominio della legge, Stato laico, visione unitaria e non provinciale delle questioni del Paese, istruzione pubblica e diffusione della conoscenza, estensione e generalizzazione progressiva, nonostante contrasti e resistenze, di diritti e libertà, lotta alle corporazioni ed ai privilegi. Indirizzi che poi, quasi cent’anni dopo, hanno trovato una più compiuta formulazione nella nostra Costituzione Repubblicana.
Osservando l’Italia di oggi, non possiamo non constatare come questa si sia profondamente allontanata da quelle idee-guida, e di come l’attuale classe dirigente non abbia nulla dell’ampiezza di vedute che caratterizzò l’avvio del processo unitario.
Oggi siamo governati da una maggioranza che si caratterizza e regge sul baratto tra gli interessi di chi non esita a stravolgere lo Stato di Diritto, cercando nella legge e nella magistratura addomesticate la propria impunità, e quelli di chi non esita ad irridere e minare la coesione territoriale del Paese cercando di tutelare gli interessi di una parte a discapito delle altre. E, sottostante a questi stravolgimenti, c’è una concezione di fondo che confligge con quelle idee-guida: basta ricordare come oggi vengano considerate l’etica pubblica, il principio della separazione dei poteri, l’austerità delle forme e dei bilanci, la concezione laica dello Stato, la scuola pubblica, i rapporti internazionali ed una costruzione europea vissuta con fastidio e sufficienza.
Non c’è allora da stupirsi se l’anniversario dei 150 anni dell’Unità del Paese appaia alla maggior parte dei nostri governanti come un giorno da celebrare senza eccessiva enfasi: troppo raccapricciante il confronto tra Cavour e Papi col fazzoletto verde, e troppo imbarazzante il confronto tra quell’apertura mentale, quell’ampiezza di vedute, quella capacità di porsi in una visione europea, e la miseria mentale e politica di una politica provincialmente ed antidemocraticamente impegnata nella propria autoriproduzione e nel servilismo nei confronti di un leader dedito prioritariamente alla tutela dei propri piaceri, dei propri interessi, della propria impunità, del proprio potere sovrano.
E non c’è da stupirsi se quei ministri leghisti che tolgono i finanziamenti ai malati di cancro per non far pagare le multe sulle quote latte agli allevatori disonesti dei loro collegi, e che impongono un simulacro di federalismo distruttivo come prezzo del loro sostegno, pur avendo giurato fedeltà alla Costituzione, non trovino nulla da festeggiare il 17 marzo.
E’ giusto che sia così, è giusto che questa gente si senta estranea o distante da questi festeggiamenti; non ne hanno il diritto: le loro parole assomiglierebbero troppo a quelle di Hitler in occasione dei funerali di Rommel. Quel che non è giusto, e che l’Italia onesta non merita, è di esser governata da gente simile.
Lasciamo allora che questa data sia celebrata da chi è coerente con il processo che ebbe avvio in quegli anni.
GIM CASSANO
Gli ecclesiastici non festeggiano, anzi non si ha la ben minuma notizia di qualche manifestazione dei "cattolici" a favore del 150° anniversario. Eppure fanno manifestazioni di tutti i tipi: dai dentisti cattolici ai notai cattolici ad esempio.
RispondiEliminaMagari 150 anni dopo rimpiangono ancora lo Stato Vaticano che cadde solo grazie alla breccia di Porta Pia!
Carlo Michelanti