venerdì 8 luglio 2011

CONGEDI

Si scorrono, inevitabilmente, i nomi dei necrologi. E nei pensieri si riformano legami, si ridisegnano riunioni e assemblee, riappare quel tessuto di relazioni che è Roma, tra politica ed economia, tra istituzioni e luoghi di appartenenza.
Altre città abituate alle aziende, soprattutto industriali, come ambiti delle relazioni e dello sviluppo, conoscono poco e male questo brulicare romano di iniziative parallele, di associazioni e istituti, di centri studi e club che derivano quasi sempre da antichi impegni, da circuiti relazionali che si sono stabiliti nei partiti, nei ministeri, nelle partecipazioni statali. Circuiti vivi, progettuali, con economie ormai piccole e difficili, ma che non demordono per consentire legami e sperimentazioni a chi spesso sarebbe altrimenti ai margini di ciò che si intende per “classe dirigente”.
Questa sociologia relazionale ha bisogno di personalità forti, di figure che – magari risolto il loro problema personale con una buona pensione parlamentare o aziendale – dedicano il loro tempo prevalente a “tenere insieme” storie e persone anche diverse ma aggregabili così come il superamento di antichi conflitti e dissensi nel tempo diventa, anzi, esperienza comune.
Di queste personalità Enrico Manca è stato, negli ultimi venti anni a Roma, forse la figura più solida e attiva, nel territorio a metà tra politica e imprese che è quello delle comunicazioni.
La nostalgia di un partito politico a lungo “ago della bilancia” della politica nazionale (il PSI) e di una grande azienda come la Rai da sempre proiezione diretta dell’evoluzione dei poteri del paese, due motori psicologici mai spenti per generare ancora voglia e volontà di tenere – con istituti di studio, con la convegnistica, con  riviste -  connessi mondi che altrove recitano su spartiti antagonisti ma che da qualche parte devono provare a cantare nello stesso coro. E in questa impresa formandosi, nel tempo, un ambito di amicizie e di frequentazioni per chi non mette la parola fine alla voglia di interpretare, discutere, commentare laddove ormai la “politica praticata” è diventata un mezzo deserto.
Questa è la fotografia che mi viene da delineare, questa mattina, 6 luglio, in treno da Milano, appresa ieri la notizia inaspettata della scomparsa di Enrico Manca, già vicesegretario del Partito Socialista, già ministro, già presidente della Rai della cui più interessante nuova creatura – l’Isimm (cioè l’Istituto di Studi sui media e la multimedialità) - sono stato per molti anni il vice-presidente, partecipando poi, collateralmente, ai comitati redazionali delle riviste più dichiaratamente politiche come Pol.is che, con sforzi crescenti, prolungavano la qualità di un dibattito ormai estraneo alla rappresentazione corrente della politica.
Vado a Roma per i funerali, annunciati alla Protomoteca. La notizia della morte mi ha davvero colpito perché negli ultimi mesi – soprattutto per il coinvolgimento nella vicenda elettorale milanese – ho frequentato poco Roma e ho ritardato a dare risposte a sollecitazioni in primavera dello stesso Enrico a rivederci e parlarci. Mi hanno detto che a Pasqua si sono manifestati problemi polmonari e che la crisi negli ultimissimi giorni sia stata improvvisa. Ritaglio questo tempo in treno con dedizione personale, rivolto a tanti ricordi, per uno spazio sul mio sito che dedico a “congedi” rispetto a figure importanti della mia vita e del mio lavoro.
All’origine le nostre posizioni erano politicamente conflittuali, io tra coloro che – alla fine degli anni ’70 – affiancavano Claudio Martelli che era alla guida dell’area cultura, spettacolo e informazione del PSI, lui sconfitto da Craxi, ritenuto rappresentante di quel “ventre molle” del partito, sospettato di troppa indulgenza verso i comunisti e considerato incline anche ai tradimenti.
La creazione dell’Isimm – lui subito dopo la fine del periodo di presidenza della Rai, io direttore generale dell’informazione a Palazzo Chigi – fu occasione per dare un senso a un progetto che poteva avere un ruolo importante – visto nell’ottica di istituzioni che avrebbero dovuto impegnarsi in convenzioni – come terreni di incontro, mediazione e depotenziamento di conflitti laddove era già evidente che proprio il conflitto (e non solo quello degli interessi di Berlusconi) era una causa costante di sviluppo ritardato per gli interessi competitivi italiani.
Poi, dopo avere lasciato sia la Presidenza del Consiglio che, a seguito, l’Olivetti, mi impegnai di più in quel progetto che ebbe proprio alla fine degli anni ’90 particolare creatività.  Ma dietro a questo “salotto” si manteneva anche viva la discussione sul “che fare” rispetto alla politica in frantumi. Ho scritto una pagina nel libro Quarantotto (Bompiani, 2008) per avere avuto a che fare con uno dei tanti tentativi compiuti da Enrico Manca per dare sbocco a queste discussioni. Quello di pochi anni fa, con Piero Fassino alla segreteria del PD, di mettere il segretario di fronte a una cinquantina di rispettabilissime persone di storia socialista per obbligarlo non a una silenziosa politica di annessioni alla spicciolata ma ad una più rituale regolazione di vicende che avevano bisogno di ammissioni e di rilancio rispettoso delle storie. Manca volle che fossi io ad aprire il giro degli interventi, perché avevo scritto a proposito di identità e di memoria che il nuovo gruppo dirigente del PD tendeva a tagliare e a cancellare. Chiesi appunto un “rito” e non provvedimenti in ombra e alla spicciolata. Fassino che era il migliore interlocutore che si potesse avere in quella fase, non poteva però garantire né il rito né la luce del sole. Ne seguì una mia lettera aperta che raccontava questa storia andata male, così come era andata male prima la possibilità di creare nella Margherita di Rutelli (c’era stata una preliminare sollecitazione di Paolo Gentiloni) una vera gamba  laico-socialista che avrebbe disegnato poi anche una diversa geografia del PD, a causa del veto (mi aveva detto Rutelli quando fui ai Beni culturali suo consigliere economico) dei prodiani e di  Castagnetti.
Insomma socialisti scomodi, dispersi, rispettati singolarmente ma non ritenuti spendibili come aggregato storico. Un cruccio per tanti. Uno sforzo di salvare patrimonio e metodo (quello che hanno fatto, per esempio, alcune fondazioni e alcune riviste, innanzi tutto Mondoperaio diretta da Gigi Covatta, ma anche Critica Sociale e appunto Pol.is). Una rielaborazione di ruolo in forme nuove (come potrebbe rappresentare, provo a dire io da qualche tempo, un modello “oltre” tipo quello vincente a Milano impersonato da Giuliano Pisapia). Di questa vicenda milanese recente non ho avuto modo di parlare con Enrico, che è stato attento allo sguardo sempre meno “romano” che ho cercato di avere negli ultimi anni. Ne ho scritto un po’ su Mondoperaio e gli ho mandato qualche nota. Ma questa volta non c’è stata la condizione di riprendere de visu gli elementi di novità e purtroppo non ci sarà più.
Nel 2010 mi aveva scritto il suo dissenso per avere io accettato di fare il capolista indipendente con i radicali alle regionali in Lombardia (Como e Milano).Poi le liste non arrivarono al voto per insufficienza di firme, ma aprendo una querelle importante proprio su firme e legalità e consentendo di dire per primi lo scandalo del listino formigoniano con le note imposizioni del premier. Abbiamo avuto uno scambio di lettere di altri tempi, lunghe, argomentate, con i punti esclamativi.  Per spiegargli alla fine il perché – in quel momento – di un segnale di indipendenza per riprendermi il diritto di parola su tante cose del sistema Italia arrivate, a  mio avviso, al capolinea. Ma i capi socialisti hanno anche maturato nel tempo insofferenza per Marco Pannella, che a me – che non ho avuto quei coinvolgimenti un po’ nevrotici – produce invece simpatia e comunque rispetto per il varco tenuto aperto nel rapporto tra politica, diritti e legalità. Comunque alla fine di quelle lettere il dissenso si stemperò e, mantenendo il punto, Enrico accettò anche il mio di punto.
Nella relazionalità il suo è stato uno sforzo generoso. Non poteva assicurare soluzioni, ma ha tenuto luoghi e modi per consentire aggregazioni sempre larghe. E – per tutti coloro che hanno ruolo nel sistema delle comunicazioni – ha creato condizioni per accompagnare e capire innovazioni, trasformazioni, adeguamento delle politiche pubbliche. Il mio manuale di Politiche pubbliche per le comunicazioni (Etas, 2009) ha beneficiato non poco di quell’ambiente di discussione e della rete di amici (davvero tanti e soprattutto i più giovani, da Anna Alessi a Robert Castrucci) che senza Enrico Manca non sarebbe esistita. Se si ha da dare – e l’esperienza (Paolo Franchi la tratteggia bene sul Corriere di oggi) è un bagaglio ineludibile nel rapporto raffinato tra conoscenza e decisione – non ha senso invocare il giovanilismo per polemizzare con il “protagonismo” di persone un po’ anziane.  Soprattutto perché questo “dare” non è legato ai “posti di lavoro”, ma ad una modalità di connettere generazioni e storie anche dissimili dentro percorsi formativi che né la scuola, né l’università né le aziende sanno generare, almeno in Italia.  Quindi, alla fine di questi pensieri, il mio è un grazie a un amico, un compagno, una figura che ha rispettato le mie esperienze, non piegandole a piccoli interessi ma aiutando, a suo modo, a vincere o almeno a contenere delusioni e  solitudini e a tenere in tensione speranze e indomiti impulsi di servire il miglioramento del Paese.
STEFANO ROLANDO

martedì 5 luglio 2011

E' SCOMPARSO ENRICO MANCA. IL CORDOGLIO DI NENCINI E DEL PSI

E' morto nella notte, all'Ospedale Gemelli di Roma per le complicazioni di una lunga malattia Enrico Manca, giornalista, politico ed ex presidente della Rai. Aveva 79 anni. Laureato in giurisprudenza aveva iniziato al giornale radio Rai per poi aderire al Psi, di cui fu deputato dal 1972 al 1994. Fu ministro nei governi Cossiga e Forlani.
Attualmente era presidente dell'Isimm (Istituto per lo Studio dell’Innovazione Media, Economia, Società e Istituzioni) e della Fondazione Bordoni.
"Esprimo la costernazione e il cordoglio mio personale e di tutti i socialisti per la scomparsa di Enrico Manca che è stato esponente di primo piano e protagonista del Psi negli anni in cui il partito imboccò la difficile e coraggiosa strada del rinnovamento". Così il segretario nazionale del Psi Riccardo Nencini, dopo avere appreso la notizia, in un messaggio inviato alla famiglia dello scomparso.
"Enrico Manca, negli anni della profonda trasformazione dell'Italia, ha saputo intepretare e  governare come pochi altri il cambiamento in atto, come uomo di governo e soprattutto come presidente della Rai che seppe orientare verso una radicale modernizzazione, rendendola un'azienda all'avanguardia nello scenario radiotelevisivo europeo e mondiale.
Lo ricordiamo con affetto e con rimpianto".

FINANZIARE UN NEW DEAL DELL'EUROPA

L'Europa ha perduto la guerra tra i governi eletti e le agenzie di rating non elette. I governi cercano di governare, ma le agenzie di rating dettano le regole. Gli elettori lo sanno e alcuni Stati membri si oppongono a trasferimenti di bilancio verso altri Stati. Eppure, alcuni di essi, tra i quali la Germania, hanno profittato di un euro che ha un tasso di cambio più basso e più competitivo di quanto sarebbe in un'Eurozona formata solo da un nucleo ridotto di Paesi forti. 
Il default da parte dei Paesi più esposti dal punto di vista del debito colpirebbe le banche e i fondi pensione nel centro dell'Europa come nella periferia. 
Nessuno è immune. La risposta è: non meno, bensì più Europa. 
Jean-Claude Juncker e Giulio Tremonti hanno proposto la conversione di una quota del debito nazionale in obbligazioni Ue come strumento di stabilizzazione della crisi attuale. Siamo d'accordo. La decisione di una simile conversione non richiede l'unanimità. Si tratterebbe di una cooperazione rafforzata, come fu la creazione stessa dell'euro. I governi che volessero mantenere obbligazioni proprie, come potrebbe essere il caso della Germania, sarebbero autorizzati a farlo. 
Siamo d'accordo con Juncker e Tremonti sul fatto che le obbligazioni europee possano essere commerciate a livello mondiale e attrarre le eccedenze dei fondi sovrani e delle economie emergenti i cui governi rivendicano un sistema valutario più articolato. Si tratterebbe di flussi finanziari verso l'Unione piuttosto che di trasferimenti fiscali al suo interno. Ma suggeriamo che la conversione di una quota del debito nazionale verso l'Ue non deve essere posta sul mercato. Potrebbe essere detenuta direttamente dall'Unione. Non essendo oggetto di scambio sarebbe esente dalla valutazione delle agenzie di rating. Il suo tasso di interesse potrebbe essere deciso in una misura sostenibile dai ministri delle Finanze dell' Eurogruppo. Sarebbe immune dalla speculazione. Governerebbero i governi piuttosto che le agenzie di rating. 
Suggeriamo anche che bisogna imparare dalle lezioni del New Deal americano degli anni Trenta che hanno ispirato la proposta di Jacques Delors nel 1993 diretta ad accompagnare una valuta comune con obbligazioni europee. L'amministrazione Roosevelt non ebbe bisogno di far finanziare o garantire i bond degli Stati Uniti da parte degli Stati dell'Unione, come la California o il Delaware, esigere trasferimenti di bilancio o acquistare il loro debito. E non ha bisogno di farlo oggi l'Unione europea per emettere i suoi bond. Le obbligazioni Usa sono finanziate con la politica fiscale comune. L'Europa non ne dispone. Ma gli Stati membri la cui quota di debito nazionale è stata convertita in bond Ue possono servirlo tramite le entrate fiscali nazionali, senza trasferimenti di bilancio da parte degli altri. L'Europa ha anche un ulteriore non trascurabile vantaggio. La maggior parte degli Stati membri è fortemente indebitata in seguito al salvataggio delle banche. Ma questo non è il caso dell' Unione. Anche considerando l'acquisto di parti del debito nazionale dopo maggio dell' anno scorso, il suo debito è inferiore all' 1% del Pil. Si tratta di meno di un decimo dell'ammontare delle obbligazioni emesse dagli Stati Uniti per finanziare il New Deal, il cui successo consentì di finanziare il piano Marshall per la ricostruzione dell'Europa dopo la seconda guerra mondiale, di cui la Germania fu il principale beneficiario. 
E i bond europei non avrebbero necessariamente bisogno di nuove istituzioni. I bond protetti dai mercati potrebbero essere detenuti dall'European Financial Stability Facility. Bond destinati alla crescita potrebbero essere emessi dall'Efsf o dall'European Bank Group. Essi potrebbero essere serviti dalle entrate dei progetti co-finanziati così come lo sono le obbligazioni della Bei (Banca europea per gli investimenti). La Bce è il guardiano della stabilità dei prezzi, ma la Bei può intervenire a salvaguardia della crescita. I finanziamenti di progetti dalla Bei sono già doppi rispetto a quelli della Banca Mondiale. La quale da 50 anni ha emesso proprie obbligazioni senza garanzie nazionali o trasferimenti fiscali. 
Nessuno dei principali stati membri dell'Eurozona calcola i finanziamenti della Bei all'interno del debito nazionale. Le obbligazioni non sono moneta stampata. Non sono finanza in deficit. Le emissioni nette di obbligazioni da parte dell'Unione significherebbero flussi di fondi per finanziare la ripresa europea, piuttosto che l'austerità. 
Ci rivolgiamo all'Ecofin e al Consiglio europeo perché adotti questa linea sia per salvaguardare l'Eurozona, sia per sviluppare la coesione economica e sociale attraverso un New Deal per l'Europa.  
Aderiscono Enrique Baron, Michel Rocard, Jorge Sampaio e Mario Soares.
AMATO GIULIANO, VERHOFSTADT GUY
Articolo pubblicato dal "Corriere della Sera" del 4/7/11 

lunedì 4 luglio 2011

L’ANDREOTTISMO IERI E OGGI


Vorrei avanzare in forma interrogativa un’ipotesi che a qualcuno potrà apparire azzardata. Quale responsabilità ha la sinistra nella riapparizione, sotto altre forme, del degrado politico che trent’anni or sono si chiamò “andreottismo”, e quali le radici che hanno portato dalla P2 alle altre cosiddette “P”?  Il “bisignanismo” d’oggi con i capitoli lobbistici, millantatori e imbroglionistici, è senza dubbio la reincarnazione di quell’andreottismo che fondava la sua variegata consorteria sul potere istituzionale e sotterraneo, su pezzi dell’apparato statale, e sui potentati economici fino a toccare settori delle forze armate. E’ accertato che tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento, Giulio Andreotti fu al centro di una serie di episodi che culminarono negli scandali Sindona e P2 di cui il ministro rappresentò il vero pivot. Non tutti sono a conoscenza, ad esempio, di ciò che Vaticano Spa di Gianluigi Nuzzi ha portato alla luce dando notizia del conto presso l’IOR “in cui transitarono milioni di banconote e miliardi in contanti” intitolato a una fantomatica “Fondazione Spellmann” gestita per conto di Andreotti da monsignor Donato de Bonis: notizia che io  avevo già pubblicato nel 1983 nella relazione di minoranza dell’inchiesta parlamentare Sindona.
Senza insistere con le memorie, intendo solo richiamare qui l’attenzione sul fatto che il PCI di allora non volle mai condurre una campagna politica contro Andreotti e l’andreottismo perché fino alle elezioni del 1983 si adoperò per riallacciare quel dialogo compromissorio con la DC che aveva avuto i prodromi nel 1978 al tempo di Moro. Quando nell’ottobre 1984 si discusse alla Camera a conclusione dell’inchiesta Sindona la mozione radicale con la quale si chiedevano le dimissioni del ministro degli esteri, i deputati comunisti si astennero con l’effetto di salvare da una probabile fine Andreotti, responsabile politico - ripeto “politico” - di non pochi misfatti. Qualche anno dopo, però, gli stessi comunisti, o una loro parte che non aveva voluto prendere iniziative politiche anti-andreottiane, si adoperò per azionare contro di lui la via giudiziaria, prima con la commissione antimafia di Luciano Violante, e poi con il processo di Palermo con la farsa del bacio che finì con la definitiva assoluzione del personaggio, uscito così  indenne dal martellamento giudiziario. L’atteggiamento dei comunisti, o di quelli di loro che condussero il gioco, rispetto al morbo andreottiano fu di valorizzare al massimo la via giudiziaria, come del resto accadde con il massacro di tangentopoli dei partiti non comunisti. 
Oggi, non è superfluo ricordare l’atteggiamento di allora della sinistra comunista rispetto ad Andreotti e all’andreottismo perché in qualche modo si trattò dell’affermazione paradigmatica del primato della via giudiziaria su quella politica con tutti i fallimenti e i guasti che ne sono derivati per l’Italia degli ultimi quarant’anni. In questo momento – mi pare – si corrono gli stessi pericoli di allora con il rischio di finire in un vicolo cieco o, magari, in uno sbocco simile a quello del 1994 che ci riservò il berlusconismo. Da tempo ormai l’antiberlusconismo nelle varianti giornalistiche e politiche, ha puntato - poco importa se coscientemente o meno - sulle soluzioni giudiziarie che si autoalimentano in una spirale che moltiplica immaginifiche “P”, purché siano in grado di suscitare clamore giornalistico e consenso viscerale. Personalmente, da garantista, non sono affatto minimalista nei confronti del formicaio purulento venuto fuori dal caso Bisignani e dintorni. Non tutti sanno, per ricorrere a un parallelismo, che insieme alla fasulla “fondazione Spellmann” di Andreotti, Bisignani aprì nell’ottobre 1990 un conto all’IOR intestato ad una altrettanta fasulla “Louis Augustus Jonas Foundation (Usa)” con 600 milioni in contanti, destinata a raccogliere somme per “l’aiuto ai bimbi poveri”. Al di la delle malefatte penali di cui continua a occuparsi la magistratura, a me pare che in sede di responsabilità politica e di pubblica opinione dobbiamo distogliere lo sguardo dal terreno giudiziario per concentrarci sulle ragioni e le modalità che hanno distorto ed avvilito i legittimi meccanismi politici ed istituzionali.
La sinistra comunista ebbe allora molte responsabilità nel tenere in vita ed alla fine santificare un indenne Andreotti con tutto l’andreottismo. Facciamo in modo che questa volta i democratici alternativi al centro-destra non combinino altrettanti guai con Berlusconi e Bisignani, e con il berlusconismo ed il bisignanismo che, forse, si sono potuti sviluppare anche grazie all’atteggiamento che la sinistra prese di fronte all’immarcescibile democristiano. 
MASSIMO TEODORI
Articolo pubblicato da  “Il Riformista”, 2 luglio 2011