mercoledì 23 novembre 2011

MA IL BING BANG DEI PARTITI E' ALLE PORTE

E' curioso che Berlusconi abbia chiesto al presidente Monti l'impegno a non candidarsi alle elezioni del 2013. Se infatti il governo “tecnico” nasce per realizzare riforme impopolari, tali cioè da far perdere consensi a chi le fa, Berlusconi non dovrebbe temere l'eventuale concorrenza del Professore: chi voterebbe un governo da lacrime e sangue? Invece Berlusconi è preoccupato, e c'è da immaginare che qualche preoccupazione serpeggi anche fra i suoi dirimpettai del partito democratico.
Del resto un osservatore fra i più avvertiti, come Angelo Panebianco sul Corriere di oggi, non sottovaluta la “funzione latente” assegnata al nuovo governo: quella di “offrire alla politica partitica la possibilità di scomporsi e ricomporsi su nuove basi”; ed arriva addirittura, pur senza citare la fonte, a riproporre la ricetta craxiana dell'elezione diretta del presidente della Repubblica, al fine di responsabilizzare politicamente un potere che nelle scorse settimane si è rivelato indispensabile per sciogliere il groviglio determinato dall'irrazionale sovrapposizione del sistema elettorale maggioritario e della forma di governo parlamentare.
E' difficile, ovviamente, che nel calendario della legislatura in corso si possa aprire una finestra per riforme costituzionali di questa portata. Ma è significativo che un bipolarista convinto come Panebianco non invochi più, come logico complemento del sistema maggioritario, l'elezione diretta del premier, o qualche altra forma di rafforzamento dell'esecutivo. Anche lui, evidentemente, si aspetta che “per effetto del tramonto dell'era berlusconiana” nel sistema dei partiti si determini un Bing Bang. Che poi questo significhi “che l'era berlusconiana potrebbe essere stata solo un lungo intermezzo tra la fine della Dc e la sua rinascita” dipende solo dagli attori politici. I quali comunque non dovrebbero temere più che tanto se, in caso contrario, finissero “in cavalleria sia il bipolarismo che l'alternanza”: infatti il “cupo futuro di accentuata instabilità politica” che Panebianco paventa è già dietro le loro spalle.
LUIGI COVATTA

Articolo pubblicato da Il Riformista del 21 novembre 2011

martedì 22 novembre 2011

QUARESIMA E RESURREZIONE

“Son già sicuri di aver vinto, anche le maschere van giù, ormai non ne han bisogno più: son già seduti in Parlamento”.
È il 1973 e Giorgio Gaber canta la sua “presa del potere”. In un’Italia che gioca alle carte e parla di calcio nei bar, al governo arrivano l'intellighenzia e gli scienziati, i tecnocrati, bellissimi e hitleriani.
Dev’esserci un certo nostalgismo verso il proprio passato, nella posizione che nei giorni scorsi ha tenuto Giuliano Ferrara, uno che nella vita ha cambiato più volte casacca e religione.
Non si spiega altrimenti l’allarme dell’illustre Elefantino, che ha radunato i suoi mille per denunciare la reale natura del neonato governo Monti: un “furto di democrazia”, un “complotto delle banche”, un “golpe per mezzo di spread”, che espone il Paese al rischio di una “direzione etero-lobbistica”.
Una teoria, quella della sospensione della democrazia, cavalcata dallo stesso Silvio Berlusconi, che, subito dopo aver presentato le proprie dimissioni come atto di responsabilità e magnanimità verso il Paese, ha smesso gli inediti panni del pater patriae per rimettere quelli a lui certamente più consoni della vittima sacrificale. Sempre la stessa commedia, cambiano i congiurati: i giudici comunisti hanno lasciato il posto al “terrorismo dell'opposizione, della stampa, della stampa straniera”.
La polemica sulla presunta illegittimità del governo Monti, posta in questi termini, si esaurisce velocemente nella sua pretestuosità. Nulla osta, nella nostra carta costituzionale, il ricorso a un esecutivo di questo tipo. Esecutivo che, tra l’altro, gode di un’amplissima maggioranza parlamentare.  
Si potrebbe al massimo affermare, parafrasando Schumpeter, che l’unica sospensione cui assistiamo è quella relativa al momento della competizione elettorale. Una sospensione che appare non solo risibile ma anche auspicabile, a maggior ragione in virtù dei danni che il ricorso a una campagna elettorale permanente ha provocato, in termini di provvedimenti e di deresponsabilizzazione della politica, negli ultimi anni.
E pur tuttavia, la scelta di un governo tecnico in un momento di instabilità così grave riapre l’annoso dibattito sullo stato di salute dei partiti italiani.
Di crisi dei partiti si parla ormai da diverso tempo. Una crisi che riguarda, non soltanto e non più, la pretesa funzione di rappresentanza degli interessi di un elettorato sempre più disaffezionato e lontano dalle logiche tradizionali di affiliazione. Il malessere dei partiti italiani, a questo punto, coinvolge piuttosto la funzione di selezione e formazione delle classi dirigenti. In questo senso, la personalizzazione “impersonale” del ventennio berlusconiano è l’esempio più lampante di un fenomeno ben più diffuso e trasversale.  E ora che il vaso di Pandora è stato aperto, il governo dei tecnici si è insediato, dimostrando il fallimento di un’intera classe politica.
Non è questo il momento per discutere: di fronte a un’emergenza di queste proporzioni l’unità è l’unica risposta, e anche le faide partitiche dovranno aspettare. E pur tuttavia, paradossalmente, il governo Monti potrebbe offrire a una classe politica al tramonto un’inaspettata occasione di rifondazione. Quale occasione migliore di un’incombente crisi sistemica, per dimostrare di poter generare una classe di “politici di professione”, che, nel senso weberiano del termine, agisca con passione (Sachlichkeit), lungimiranza, e, finalmente, senso di responsabilità?
NOEMI TRINO

INDIGNADOS, LA VITTORIA DELL'UOMO QUALUNQUE?

Il PPE a guida Mariano Rajoy  ha sbaragliato i socialisti di Rubalcaba, sull’onda della protesta degli Indignados madrileni; negli States, il movimento di Occupy Wall Street mette alle corde il democratico Obama, eroe dei giovani yes we can; il neo formato governo Monti trova un’accanita opposizione, oltre che nella Lega Nord, in Libero, nel Foglio, nel Giornale che, senza mezzi termini, gridano al “Golpe Bianco”, alla sospensione della democrazia, alla dittatura di tecnocrati e banchieri. 
L’indignazione è forse diventata di “destra”? Ovviamente gli esperti di politologia storceranno  il naso ai miei improvvidi accostamenti. Hanno assolutamente ragione; anzi, tante e tali sono le peculiarità che caratterizzano gli scenari da me, provocatoriamente, accostati, che nulla accomuna Spagna, Usa, italica stampa… nulla, nulla tranne l’indignazione. Indignazione non tanto e non solo verso un “mal governo”, piuttosto contro un mal sistema, quello dei moltissimi vizi e delle pochissime virtù delle classi dirigenti (la nostra su tutte ma non solo…), dell’abbraccio mortale tra politica ed economia (mortale per la prima, si intende) dell’anomia dei mercati (con il crollo definitivo del dogma ultraliberista dell’autoregolamentazione dei sistemi finanziari). Contro tutto ciò, si indirizza la disapprovazione delle masse. 
Ma sono masse, per l’appunto, perché questa indignazione, e dispiace dirlo, è tendenzialmente apropositiva, qualunquista, disorganizzata. E non si incarna in un'ideologia ma riprende, stanca e confusa, eterogenei schemi esteriori di vieti ideologismi. E’ una folla sacrosantamente stanca di diseguaglianze e privilegi ma senza progetto, speranza, futuro; per questo non c’è visione d’ insieme, non c’è forza, non  c’è spinta, non vi è l’identificazione con un ideale comune per la cui realizzazione lottare - pacificamente, ovvio. Il problema di fondo è che il diffondersi dell’antipolitica, dato che accomuna queste torme di indignados, che ce l’hanno (ripeto, non senza fondamento) contro tutto e tutti, è un serissimo rischio per la democrazia. 
E non a caso ad accusare il colpo più duro sono le socialdemocrazie europee mentre ad aver gioco facile nel cavalcare l’indignazione, è proprio quella destra  neo liberista (ma assolutamente non liberale) che, ex abrupto, si scopre nazionalista, populista, repubblichina, demagoga  e che, come giustamente avverte Marco Revelli, si nutre di complottismo e dietrologia ed evoca la trama occulta dei banchieri che troppo da vicino ricorda spettri di congiura demo pluto massonico giudaica…. Popoli stanchi e svogliati sono facili prede di trascinatori forti e carismatici che, giocando sull’indignazione e le tasche vuote,  possono riportare in auge schemi novecenteschi, magari sotto altre forme, che credevamo appartenere ad un cupo passato. I governi “tecnici”, di visentiniana memoria, varati in Italia ed in Grecia sono, oltre che opportuni in questa congiuntura, assolutamente leciti, conformi alle procedure costituzionali dei rispettivi ordinamenti, democraticamente legittimati dai rispettivi parlamenti. Non è gridando ad una cospirazione che non c’è ma piuttosto riscoprendo il primato della politica, quale volontà cosciente ed impegno critico, quale attività per il benessere della polis, quale pratica comune, che sarà possibile convogliare l’attivismo degli indignados entro quella visione costruttiva necessaria per rifondare la nostra società su basi più giuste, libere ed eguali, che è poi l’idea fondante del liberalsocialismo.
LETTERIO DE DOMENICO



lunedì 7 novembre 2011

LO STORICISMO DI UN GRANDE INTELLETTUALE



Ho conosciuto Napoleone Colajanni soprattutto sulle pagine de Le ragioni del Socialismo, cogliendone subito la levatura e l’onestà intellettuale. Egli era, come noto, un riformista e un marxista. Così come alle idee di Marx, in particolare all’austromarxismo, si rifaceva il socialdemocratico Giuseppe Saragat. E lo stesso Riccardo Lombardi, proveniente dal Partito d’Azione, parlava un “dialetto marxista”.
Insomma: oggi gli under 40 sono abituati a citare Carlo Rosselli e a evocare il socialismo liberale, ma si è trattato per decenni di un filone politico-culturale di gran lunga minoritario.
Ho imparato molto dalla polemica Colajanni-Umberto Ranieri riguardo ad esempio alla definizione di Rosselli come “un pensatore confuso”, oppure ai capitalismi come approdo della storia. Per non dire del ruolo della “dialettica”, e quindi anche della lotta di classe o delle diverse visioni del mondo, nel dispiegarsi degli eventi.
Occorre in realtà ammettere che fu Bettino Craxi a suscitare in Italia l’impressione che un socialismo non marxista fosse pensabile e che potesse trattarsi di un fenomeno di massa. Il saggio su Proudhon e, più in generale, la valorizzazione del cosiddetto socialismo utopistico, la passione per Garibaldi, la rilettura di Ignazio Silone e dei Rosselli portarono centinaia di migliaia di persone a concepire e a percepire l’esistenza di un altro socialismo, umanitario, libertario e talora religioso. Non mancavano certo approssimazioni, superficialità e strumentalità in tale (ri)scoperta, ma il messaggio di fondo era chiaro e veniva colto: il socialismo non coincide con il marxismo.
In seguito si è compiuto un altro passo decisivo: collocare tutto ciò nel quadro del pensiero liberale di sinistra, forse soprattutto anglosassone. E così giungiamo all’humus grazie al quale si sono nutrite le ultime generazioni di riformisti.
Una volta Giorgio Benvenuto, allora leader della Uil, disse: è giunto il momento che Giovanni (liberale) e Giorgio Amendola (marxista) si diano idealmente la mano. Io con lo stesso spirito chiedo: non è tempo che i ragazzi venuti su con John Rawls e Amartya Sen si confrontino con un intellettuale come Colajanni e con il suo “storicismo”?
DANILO DI MATTEO

Tratto da Il Riformista di sabato 5 novembre 2011