mercoledì 25 luglio 2012

L’involuzione della democrazia nelle analisi di Pareto e Gramsci

I tempi che corrono in Italia e all’estero, all’interno dei cosiddetti Paesi di antica democrazia afflitti da una profonda crisi economica, sociale e politica, portano alla mente le riflessioni sulla democrazia di due grandi pensatori sociali cui l’Italia ha dato i natali: Vilfredo Pareto ed Antonio Gramsci.
Entrambi, per motivi diversi, tutti di natura ideologica, non sono apprezzati in patria quanto lo sono invece nel mondo; tutto questo non fa certo onore al nostro Paese.
Ma quali sono i punti di convergenza del pensiero di questi due grandi pensatori sulla democrazia?.
La risposta all’interrogativo sgorga spontanea non appena si ripercorrano, sia pure fugacemente, le loro riflessioni, leggendo i saggi raccolti in Trasformazione della democrazia, per Pareto, ed i Quaderni del carcere, per Gramsci.
Secondo Pareto, l’ordinamento sociale non è “mai in perfetta quiete” con un cambiamento che non si manifesta mai con la stessa intensità.
Il suo determinarsi è causato da un processo nel quale è possibile riconoscere alcune costanti, le principali delle quali sono un incremento sostenuto di ricchezza volta alla produzione, una sua distribuzione diseguale tra i componenti del sistema sociale e la formazione di due distinte classi (quella dei “ricchi”, proprietari di gran parte della ricchezza prodotta e accumulata, e quella dei “poveri”, proprietari dei servizi della loro capacità lavorativa).
Questo processo dicotomico della struttura sociale origina il fenomeno della plutocrazia, ed uno dei segni del contenimento dei suoi esiti indesiderati è l’estensione del suffragio universale e del metodo di governo democratico del sistema sociale.
Strumento efficace della plutocrazia per la difesa dei propri interessi è il parlamento, all’interno del quale siedono uomini che, sulla base di derivazioni (ovvero di trasfigurazioni ideologiche di concreti interessi), difendono i plutocrati. Per questo motivo, il metodo di governo democratico “segue in parte le sorti della plutocrazia...e le sue trasformazioni...si accompagnano colle vicende della plutocrazia”. 
Grazie quindi alla democrazia storicamente realizzata, ovvero all’alleanza del potere del numero nel parlamento e della ricchezza nel sistema sociale, viene legittimato il dominio dei plutocrati e lo sfruttamento dei lavoratori. L’alleanza, traducendosi nel “cane da guardia” dell’immodificabilità dello status quo, origina un processo degenerativo che corrompe sia il gruppo dirigente del sistema sociale, formato dagli stessi plutocrati e dai portatori dei loro interessi nel parlamento, sia lo stesso sistema.
Un gruppo dirigente, però, è utile alla cura dell’intero sistema sociale nel quale opera finché riesce a rinnovarsi con le energie morali ed intellettuali degli elementi migliori delle due classi, ovvero finché riesce a tutelare gli interessi di tutte le classi e non solo gli interessi di una soltanto. Quando il processo di rinnovamento si blocca, insorge una crisi del gruppo dirigente e dell’intero sistema, ed il “blocco” ha la conseguenza di aumentare il numero degli elementi degenerati compresi nella classe dominante, con grave pregiudizio per per il funzionamento della democrazia.
Non diversamente Gramsci, nei Quaderni del carcere, razionalizza il “sarcasmo di destra” di Pareto; per quanto critiche siano le sue riflessioni su questo sarcasmo, egli ne conferma la validità attraverso un’analisi della degenerazione che subisce il concetto di egemonia. Su tale concetto Gramsci fonda il governo dei rapporti tra la classe dei plutocrati (classe dirigente) e quella dei lavoratori (classe diretta), allorché, venendo meno ogni osmosi tra dirigenti e diretti, l’egemonia perde ogni consenso, degradando a puro dominio della classe dirigente.
Ciò significa che, per evitare rapporti di dominio sociale, l’esercizio dell’egemonia deve avvenire in modo equilibrato sul piano distributivo; se ciò non accade, l’ordinamento democratico del sistema sociale e la sua ordinata evoluzione corrono il rischio di essere compromessi dall’assolutizzarsi della posizione di dominio di una sola della classi antagoniste, con il possibile avvento di una qualche forma di “bonapartismo soft” (Pareto), oppure di una qualche forma di cesarismo (Gramsci).
Al di là delle opzioni politiche immediate dei due studiosi, forse segnate dalla classe di appartenenza, le loro riflessioni possono essere d’aiuto per comprendere la problematicità del tempo attuale.
Così, come il pensiero di Pareto non può essere svilito appiattendolo sul fascismo, nello stesso modo il pensiero di Gramsci non può essere svilito continuando ad appiattirlo sul bolscevismo. 
Entrambi ci presentano un’analisi appassionata dei limiti strutturali del governo democratico della società industriale moderna, ma anche un’analisi ugualmente appassionata della tensione implicita nell’ideologia universale della democrazia.
Le analisi di entrambi, infine, escludono che nel dominio del sociale possano valere forme di governo dei “professori”, i quali, presumendo di poter risolvere i problemi politici correnti secondo la prospettiva delle scienze sperimentali, rifiutando perciò ogni forma di consultazione coi destinatari delle loro decisioni, finiscono col sacrificare, anziché risolverli in positivo, i reali interessi di tutti i cittadini.
 
GIANFRANCO SABATTINI

mercoledì 4 luglio 2012

Quale politica per la “Nuova Questione Sociale”?


Sul primo numero on-line di Reset (Giugno 2012), Pierre Rosanvallon si chiede quale politica sia necessaria nel mondo contemporaneo per risolvere il problema dell’”estrema ineguaglianza”. Secondo lo storico francese, nel mondo contemporaneo è dato osservare come l’approfondimento delle disuguaglianze tragga origine dai forti incrementi dei “salari più alti”, in netto contrasto con il declino delle disparità sociali precedentemente sperimentato. 
Rosanvallon osserva anche come l’innalzamento dei salari alti e l’aggravarsi delle disparità facciano seguito ad un lungo periodo di riduzione dei salari medio-bassi e ad un aumento della disparità nella distribuzione della ricchezza accumulata.
Il sistema distributivo segna pertanto una frattura rispetto al passato, nel seno di un ritorno alle condizioni distributive proprie del Diciannovesimo secolo, con impatto negativo sulla democrazia formale e su quella sostanziale. Se questo trend non sarà contrastato, gli equilibri sociali ereditati potrebbero essere esposti a sicure minacce, aggravate dall’emergere e dal diffondersi di movimento populisti di ogni tendenza.
Per capire l’”attuale grande inversione di tendenza”, occorre partire, per Rosanvallon, dalla “grande trasformazione” che l’ha preceduta. La grande trasformazione di polanyiana memoria, avvenuta con l’istituzionalizzazione del principio della cittadinanza politica, è stata resa possibile grazie allo sviluppo sul finire del XIX secolo del movimento dei lavoratori e dalla sua traduzione in voti socialisti, fabiani e repubblicani solidaristici. Dopo il 1918, i fattori politici e sociali emersi nei decenni immediatamente precedenti hanno contribuito ad accelerare il processo riformistico per l’estensione e l’approfondimento di sempre più eque condizioni distributive. 
In tal modo, lo sviluppo delle istituzioni ridistributive (Welfare State) è stato possibile consolidarlo con il crescente riconoscimento, sia della natura sociale delle disuguaglianze, sia della maggiore rilevanza assunta dalla parità dei singoli individui in termini di condizione sociale piuttosto che in termini delle loro differenze soggettive ed oggettive.
Oggi, nelle società post-fordiste, i fattori politici e storici che hanno reso possibile la grande trasformazione originaria si sono progressivamente affievoliti. In primo luogo, perché il capitalismo ha cambiato il suo rapporto soprattutto con il mercato del lavoro e, in secondo luogo, perché ha cambiato le modalità organizzative della produzione. Il venir meno dei vecchi fattori ha determinato (e sta determinando) una “contro-trasformazione” con il passaggio del sistema sociale da un “individualismo dell’universalità”, esprimente per ogni individuo “il diritto di esercitare la stessa parte di sovranità di qualsiasi altro”, ad un ”individualismo della singolarità, ”esprimente per ogni individuo l’aspirazione ad apparire e ad essere considerato “importante ed unico agli occhi degli altri”. 
Fatto questo che costituisce causa della crescita continua degli alti salari e del contemporaneo peggioramento delle ineguaglianze in termini di reddito e di ricchezza.
Come conseguenza dell’inversione di tendenza appena descritta, il concetto di uguaglianza sta ora attraversando, per Rosanvallon, una crisi profonda. 
E il modo di uscirne non sta, né nel recupero di un nazionalismo obsoleto, aggressivo e protezionista, né nel recupero dei valori ed istituzioni che hanno concorso alla realizzazione delle antiche democrazie sociali; sta invece nella in una ridefinizione dell’uguaglianza che racchiuda in sé il ritorno agli ideali della Rivoluzione francese, articolato nei concetti di “similarità, indipendenza e cittadinanza”. 
Nel senso che, la similarità dovrebbe esprimere per tutti gli individui l’uguaglianza come equivalenza sul piano delle relazioni intersoggettive; l’indipendenza dovrebbe esprimere l’uguaglianza come autonomia e assenza di rapporti di subordinazione; la cittadinanza, infine, dovrebbe esprimere l’uguaglianza come paritaria partecipazione ai processi decisionali collettivi.
Gli ideali della Rivoluzione francese, per Rosanvillon, sono stati logorati dalla Rivoluzione industriale, in quanto lentamente quest’ultima avrebbe destituito di ogni legittimazione sociale il principio di uguaglianza. 
Per superare questa situazione di grave empasse bisognerebbe tornare allo spirito originario dell’uguaglianza, in una forma però adattata all’epoca attuale; ciò, al fine di ricuperare la necessaria legittimazione alle politiche di ridistribuzione richieste dalla soluzione della “Nuova Questione Sociale”. La soluzione non riguarderebbe più la povertà e l’esclusione, ma il “ricupero di un contesto comune per l’insieme della società”.
Rosanvillon non dice come ricuperare lo spirito originario dell’uguaglianza, né indica quali rimedi sarebbero necessari per evitare che la dinamica del processo industriale possa in futuro causarne di nuovo lo smarrimento. 
La Rivoluzione industriale ha potuto “tradire” lo spirito della Rivoluzione francese, in quanto la struttura istituzionale, realizzata sulla base di quello spirito, all’interno della quale la stessa Rivoluzione industriale ha potuto prendere corpo, si è limitata a garantire la tutela costituzionale per i soli principi di libertà e di uguaglianza e non anche del principio di fraternità (o di solidarietà). Ciò ha comportato, come sostiene il repubblicanesimo solidaristico moderno, una “zoppia della democrazia” che ha consentito alla Rivoluzione industriale di logorare lo spirito della grande Rivoluzione borghese. Per tornare ai valori originari di questa, perciò, non basta invocare, come fa Rosanvillon, la necessità che questi valori costituiscano la base legittimante delle nuove politiche di ridistribuzione. Occorre che questi valori ricevano tutti la stessa tutela costituzionale, tale da includere i principi di libertà e di uguaglianza, ma anche il principio di fratellanza o di solidarietà. 
In tal modo, lo spirito originario della Rivoluzione francese potrà essere efficacemente adattato all’epoca attuale, attraverso un’attività riformistica utile ad impedire che il funzionamento del sistema economico possa produrre disparità sociali tali da risultare ingiustificabili non solo dal punto di vista etico, ma anche da quello di uno stabile funzionamento del processo produttivo. Attraverso un’attività riformistica, cioè, che ponga un limite alla concentrazione della ricchezza accumulata e stabilisca i limiti massimo e minimo entro i quali devono esser conservate le differenze di reddito.
Gianfranco Sabattini




martedì 26 giugno 2012

IL RUOLO E L'IMPORTANZA DEI DIRITTI SOCIALI


Le misure adottate o proposte dal governo Monti per rilanciare la crescita dell’economia italiana sono giudicate ispirate ad una ingiustificata ed eccessiva austerità; si prevede infatti che l’effetto di tali misure sarà non il rilancio della crescita, ma un ulteriore peggioramento dello stato depressivo del sistema economico nazionale, per via del fatto che l’austerità varrà a comprimere i diritti sociali acquisiti. 
Si osserva che sarebbe più efficace, ed anche più condivisa sul piano politico, l’adozione di provvedimenti volti a riformare la struttura istituzionale dello Stato ed a potenziare i diritti sociali, i quali servirebbero anche e rivitalizzare i diritti sia civili che politici. 
Al riguardo, si osserva anche che tra questi e i diritti sociali esiste un rapporto di mutua implicazione, nel senso che la tutela dei primi non può prescindere dalla tutela dei secondi e viceversa.
L’idea che il potenziamento dei diritti sociali possa costituire la premessa della crescita economica trae origine dalle teoria dello sviluppo dell’uomo di Amartya Sen. 
Il “motore della crescita”, secondo questa teoria, è rappresentato dalle capacità (capabilities) di acquisire liberamente lo “star bene”. 
Per questa ragione, Sen non condivide tutte quelle teorie che fanno della libertà un diritto privo di valore intrinseco; egli infatti critica le posizioni sul problema di John Rawls e Ronald Dworkin, in quanto questi ultimi si soffermerebbero sui beni e sulle risorse che portano alla libertà piuttosto che sull’estensione della libertà in sé stessa. 
I “beni primari” di cui parla Rawls e le “risorse” di cui parla Dworkin sono, secondo Sen, degli indicatori imprecisi di ciò che un soggetto è realmente libero di fare e di essere. 
La conclusione a cui egli perviene è che lo sviluppo di una determinata comunità storica dipende dalla decisione di garantire a tutti un’adeguata qualità della vita, cioè un well-being generale non ristretto dal solo riferimento a parametri economici. 
Coloro che condividono fideisticamente questa impostazione giungono perciò ad affermare che la crescita materiale sia strettante legata allo sviluppo umano, inteso in termini di libertà (development as freedom), ovvero di una vita che “fiorisce” in tutte le sue potenzialità.
Nessuno vuole discutere l’interesse e l’importanza della teoria di Sen; tuttavia, qualche riflessione sull’origine e sulla natura dei diritti sociali serve forse a ricondurre il discorso circa i provvedimenti che si devono assumere per rilanciare la crescita del sistema economico su un terreno un poco più solido. 
Un ruolo importante nel processo di reciproca compenetrazione dei diritti civili e politici, da un lato, e di quelli sociali, dall’altro, è stato svolto dal particolare status sociale, noto col nome di cittadinanza. Tale status è servito a legare i singoli cittadini all’intero gruppo sociale istituzionalmente organizzato ed a rendere gli stessi cittadini istituzionalmente uguali. Lo status di cittadinanza è l’esito finale della convergenza di due elementi essenziali: la cittadinanza come appartenenza ad un determinato gruppo sociale, ma anche come status-contenitore di un insieme tendenzialmente aperto di diritti, comprendente sia quelli civili e politici, sia quelli sociali. I primi definiscono, in termini pre-politici, rispettivamente, il diritto dei cittadini di partecipare liberamente al funzionamento delle istituzioni civili (diritto di libertà di iniziativa, di parola, di circolazione, ecc.) e il diritto di partecipare, sempre liberamente, al funzionamento delle istituzioni politiche. 
I diritti sociali, infine, definiscono il diritto per tutti i cittadini di partecipare alla fruizione degli standard di vita storicamente determinati su basi democratiche all’interno del sistema sociale di appartenenza. Il processo di allargamento della cittadinanza ha fatto da contrappunto al processo di democratizzazione dello Stato; tale processo è stato caratterizzato dal superamento dell’assolutismo politico. 
Le fasi successive hanno scandito il consolidamento della cittadinanza con l’avvento dello Stato di diritto informato ai principi del liberismo garantista, prima, ed a quelli del liberismo welfarista, poi. 
Questa evoluzione avrebbe dovuto segnare l’avvento di un sistema sociale caratterizzato in termini social-democratici.
Rispetto allo Stato di diritto garantista, quello welfarista avrebbe dovuto consentire una interpretazione più puntuale del concetto di cittadinanza; nel senso che a differenza dello Stato di diritto garantista, che considera la cittadinanza come presupposto della partecipazione dei cittadini al funzionamento delle istituzioni civili e politiche, lo Stato di diritto welfarista avrebbe dovuto considerare gli stessi diritti come esito del processo di partecipazione di tutti, su base paritaria, al funzionamento delle istituzioni politiche e la stessa partecipazione come dovere e non come diritto. 
Come corollario ne sarebbe dovuto seguire che, a differenza dello Stato di diritto garantista che considera prioritari i diritti sui doveri, lo Stato di diritto welfarista avrebbe dovuto considerare prioritari i doveri sui diritti, nel seno che ogni diritto avrebbe dovuto essere definito in funzione del sistema dei doveri entro il quale avrebbe dovuto essere definito.
Tutto ciò non è avvenuto, per cui all’interno dello Stato di diritto social-democartico italiano è stata realizzata solo una “democrazia zoppa” che ha consentito la formazione ed il consolidamento di profonde disuguaglianze economiche e sociali. 
E’ questa una considerazione che sarebbe stato utile tenere presente, non solo nelle formulazione delle riforme istituzionali da attuare; ma anche nello stabilire i contenuti de provvedimenti da assumere per finanziare il rilancio della crescita del sistema economico nazionale. 
Le riforme istituzionali sarebbero dovute risultare strumentali rispetto al coinvolgimento di tutti i cittadini nel sopportare il “peso” dell’austerità. In assenza di tali riforme, i sacrifici richiesti sono destinati a degradare in provvedimenti depressivi ed iniqui, in quanto oltre a sacrificare i diritti sociali dei deboli, continueranno a sacrificare i diritti civili e politici, perché non sorretti dalla necessaria legittimazione politica riconducibile alla percezione di una maggior giustizia sociale.
Gianfranco Sabattini


giovedì 21 giugno 2012

ELEZIONI 2013

Siamo ufficialmente entrati in pieno clima campagna elettorale in vista delle prossime politiche. Il fermento è evidente sui mezzi di stampa, in Parlamento, e nelle segreterie dei partiti, tranne nelle intenzioni dei cittadini dalla politica delusi e disincantati. Mai come questa volta la confusione regna sovrana sia in termini di alleanze, sia in termini di prospettive future, evidente colpa di una attuale classe dirigente usurata da un ventennio di discutibili scelte politiche, ma anche a causa di una crisi economica e sociale che non sembra arretrare e per la quale nessuno riesce a trovare una soluzione strutturale. Una cosa però è certa, dopo l’ ultima direzione del PD, il popolo della sinistra avrà primarie aperte di coalizione ed i socialisti un proprio candidato, questo mi sembra un buon inizio.
Sfumando le tante ipotesi fantasiose spesso frutto di riflessioni “ante noctem” nel web, l’attuale legge elettorale ci consiglia per le future elezioni di presentare dopo un ventennio finalmente i nostri candidati nelle liste con il simbolo del PSI. Questo è un dato dal quale bisogna partire e che dovrebbe convincere tutti : furbi, meno furbi, contestatori e scettici.
Per trasparenza di pensiero però, occorre ricordare a tutti i nostri tesserati e simpatizzanti che, le regole ma soprattutto la partita delle prossime politiche noi non la giochiamo in prima persona, visto che proprio quelle regole del gioco fondamentali direi, in questo momento le scrivono altri.
Si spera che al più presto ABC troveranno l’intesa su una legge elettorale che possa finalmente ridare il voto agli italiani, scongiurando però, e di questo non si è certi, forzature antidemocratiche dell’ultimo minuto e delle quali non mi stupirei: vedi alla voce porcellum e legge elettorale delle europee del 2009 con sbarramento al 4%, quest’ ultima posta in essere soltanto per evitare agibilità politica a tutte le forze politiche e dividere la torta dei finanziamenti pubblici in pochi.
Ora la domanda da porsi è unica, ma essenziale per la nostra sopravvivenza politica ed antropologica: se la legge elettorale cambiasse con un eventuale soglia di sbarramento molto alta diciamo al 5%, cosa farà il PSI ? Se questa sciagurata ipotesi diventasse realtà, eviterei la sindrome dello sfogatoio o uno scoramento generale con conseguente richiesta di congressi straordinari o anatemi da rivoluzione giacobina, perché sempre come ricordato prima le regole non le scriviamo certamente noi, ma anzi le subiamo.
Facendo gli scongiuri, se la legge elettorale sarà cambiata, uno dei tanti obiettivi sarà ovviamente quello di penalizzare i piccoli partiti, e se fosse così, allora consiglierei almeno per una volta a tutti i compagni di abbandonare lo spirito anarchico e contestatore presente nel dna di tutti noi socialisti, per fare delle riflessioni serie e concrete.
Occorrerà infatti costruire una mero cartello elettorale con altre forze, perché come tutti i sondaggisti ci indicano da sempre il PSI ha una forbice di crescita che in Italia non supera il 3%, evitando folli corse in solitario per mero spirito autodistruttivo.
Inoltre dobbiamo essere maturi nel capire che se regole saranno truccate nuovamente, bisognerà capire che la mera alleanza a sinistra del Pd dovrà essere un esercizio di sopravvivenza, non un atto di disonore, sempre se non decidiamo di farci cancellare dai grandi partiti che in virtù del voto utile nient’ altro aspettano che fagocitare tutti, Vendola incluso anch’esso in difficoltà dopo i recenti cali di consenso.
Nei prossimi mesi dobbiamo rimanere uniti, lo dobbiamo alla nostra storia, lo dobbiamo a noi stessi che da anni ci battiamo con passione infaticabile, lo dobbiamo anche ai nostri amministratori che grazie ai loro voti, un umile ed instancabile lavoro sul territorio hanno permesso in questo quinquennio di non chiudere per sempre la porta di Piazza S. Lorenzo in Lucina.
Evitiamo le tifoserie chiassose e le contrapposizioni sterili fatte di personalismi, che nulla hanno a che vedere con la visione politica che da sempre ci contraddistingue, decidiamo insieme cosa fare e salviamo la cultura socialista e l’ unico partito che  in Italia la rappresenta, sono convinto che il tempo sarà galantuomo nei nostri confronti e potremo scrivere insieme una nuova pagina per in nostro Paese.
Veritas filia temporis.
Luigi Iorio





mercoledì 20 giugno 2012

E’ scomparso Giorgio Ballistreri, dirigente socialista e fondatore della Uil


All’età di 90 anni è scomparso Giorgio Ballistreri, dirigente socialista e uomo politico, padre di Maurizio, commissario del Psi di Messina.

Giorgio Ballistreri nel dopoguerra, duranti gli studi universitari compiuti nella Facoltà di Scienze Politiche a Palermo, partecipò alla ricostruzione del socialismo democratico e autonomista e alla fondazione della Uil nel 1950 con Italo Viglianesi.

Funzionario statale, ricoprì numerosi incarichi al vertice del sindacato: segretario generale della Uil di Messina, componente dell’Esecutivo nazionale della Confederazione e del direttivo della Federazione unitaria nazionale Cgil-Cisl-Uil, presidente e segretario regionale della Feneal, il sindacato delle costruzioni della Uil. Sostenitore di una visione gradualista dell’azione sindacale, ispirato ai modelli sindacali del riformismo europeo per un equilibrio tra dialogo sociale, contrattazione e conflitto è stato protagonista degli “anni ruggenti” del sindacalismo italiano, tra il 1969 e il 1980, segnati da nuove frontiere dei diritti dei lavoratori.

Esponente del Partito socialista, è stato presidente dello Sdi di Messina e ha ricoperto anche importanti incarichi di gestione: consigliere di amministrazione dell’Ente Siciliano Partecipazioni Industriali, dell’Istituto Regionale per il Credito alla Cooperazione, dell’Iacp, della Cassa e Scuola edile di Messina, del comitato provinciale Inps.

Sino all’ultimo Giorgio Ballistreri ha speso le proprie energie sul versante sociale, nella qualità di presidente dell’Istituto di studi “EuroMed”.

Per la sua azione sociale e di leader sindacale ha avuto numerosi riconoscimenti: l’onorificenza di commendatore al Merito della Repubblica, la laurea honoris causa in Scienze Politiche dell’Università di Studi Superiori di New York, il libro “Il sindacato tra storia e attualità”, curato da un gruppo di studiosi universitari, edito nel 2004 da Edas e a lui dedicato.

Il 22 dicembre 2000, da presidente della Uil di Messina aveva voluto che nella piazza storica della sua città, dove con un gruppo di militanti socialisti e repubblicani costituì 50 anni prima la camera sindacale provinciale, quella del Duomo cattedrale, fosse realizzato un Monumento in bronzo dedicato al lavoro, “per ribadire – come si legge in un libro scritto per l’occasione – che la globalizzazione e il liberismo non possono pregiudicare il valore del lavoro e la centralità dell’uomo con i suoi diritti, individuali e collettivi”.

Tra i messaggi quello di Giorgio Benvenuto, leader storico del sindacalismo italiano, che ha ricordato come Ballistreri sia “stato un grande dirigente sindacale. Tenace organizzatore e costruttore del sindacato. Innovatore”.
I funerali si sono svolti nel Duomo di Messina, dove la figura di Ballistreri è stata ricordata dal prof. Santi Fedele, ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Messina.

lunedì 18 giugno 2012

LE SCELTE PER USCIRE DALLA CRISI SECONDO PAOLO SAVONA

Paolo Savona, in Eresie, esorcismi e scelte giuste per uscire dalla crisi. Il caso dell’Italia (2012), osserva che la crisi economica in atto all’interno dei Paesi dell’U.E. ha spinto l’opinione pubblica internazionale ad accusare l’Italia d’essere l’epicentro della crisi europea e non la costituzione debole dell’euro per via della zoppia politica’” che sinora ha privato l’Europa di un assetto costituzionale. In Italia, i cittadini si dividono in “partiti”, nel senso che alcuni ritengono che la colpa sia della concorrenza internazionale sfrenata; altri ritengono che la colpa sia dell’euro per la falcidia che avrebbe apportato al potere d’acquisto delle famiglie; altri ancora attribuiscono la colpa all’adesione dell’Italia al Patto di stabilità senza sviluppo o, in alternativa, all’immigrazione extracomunitaria e alle “ruberie” ed evasioni fiscali. Dallo stato confusionale in cui versa l’opinione pubblica nazionale sarebbe emerso, secondo Savona, una situazione nella quale l’Italia risulta adagiata su una china che starebbe riportandola indietro.
Per porre rimedio all’inevitabile declino, Savona ripercorre, retrospettivamente, le “eresie”, ovvero le scelte sbagliate che nei decenni passati, con il consenso degli elettori, sono state adottate e gli “esorcismi”, ovvero i provvedimenti ai quali di volta in volta si è fatto ricorso per neutralizzare gli effetti negativi delle scelte effettuate. Alle eresie ed agli esorcismi Savona fa seguire l’indicazione delle “scelte giuste” che sarebbe necessario effettuare per mettere definitivamente “alle spalle una crisi che dura da oltre mezzo secolo”. E dopo aver rinvenuto nella nazionalizzazione del comparto dell’energia elettrica, nell’approvazione dello Statuto dei lavoratori, nell’accettazione di vincoli connessi in particolare all’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht ed al suo ingresso nell’area dell’euro, alcune delle principali eresie che hanno dato la stura alla formazione ed alla crescita patologica del debito pubblico, Savona sottolinea che non è stato possibile impedirne o rallentarne la crescita con gli esorcismi delle manovre correttive man mano che lo stesso debito cresceva.
Considerata la situazione di crisi attuale, per Savona, il problema più urgente da affrontare è quello di “limitare i danni di un aggiustamento che proceda secondo le linee imposte da un’Unione europea guidata dal ‘blocco culturale germanico’”. A tal fine, propone di redigere un “Piano A” composto dalle scelte da fare per stare in Europa ed un “Piano B” composto dalle scelte da fare per uscirne. Se si decidesse di ricorrere al Piano B, cioè di uscire dall’eurozona (ma non ancora dagli accordi europei vigenti), l’Italia subirebbe sicuramente un contraccolpo grave, ma ricupererebbe il controllo di tre strumenti di aggiustamento che il Paese ha ceduto ad autorità soprannazionali. Tali strumenti sono: la possibilità per l’Italia di creare la propria moneta, di fissare autonomamente i propri tassi di interesse e di stabilire i propri rapporti di cambio con l’estero. Per ottenere effetti permanenti di risanamento dell’economia nazionale con il ricuperato controllo di questi strumenti Savona individua le scelte giuste che dovrebbero essere compiute. La prima dovrebbe essere l’individuazione di un luogo istituzionale dove concentrare le “menti elette“ delle quali dispone il Paese con il compito di curare gli interessi delle generazioni future. La seconda dovrebbe riguardare l’adattamento del mercato del lavoro alle necessità della concorrenza globale (altro che riforma Fornero!). La terza dovrebbe essere diretta a chiedere la riforma del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) e dell’IMF (Fondo Monetario Internazionale). La quarta scelta giusta, infine, dovrebbe consistere nel chiedere la completa attuazione e la riforma degli accordi europei vigenti (completamento dell’unione politica, unificazione delle politiche di bilancio, allargamento delle competenze della BCE (Banca Centrale Europea) e completamento della liberalizzazione del movimento dei fattori produttivi (persone, capitali, beni e servizi). Alle quattro scelte indicate, Savona ne aggiunge un’altra di scorta alla quarta: quella di prevedere l’uscita dagli accordi europei per ricuperare l’uso degli strumenti propri della sovranità economica, pur restando nel contesto degli “accordi globali” che reggono l’ONU, il WTO e il FMI.
A questo punto, Savona disvela l’intento di tutta la sua narrazione sulle vicende italiane degli ultimi cinquanta/sessant’anni. Egli pensa che nessun Paese dell’Unione abbia interesse a fare uscire l’Italia dall’eurozona, per cui la “scelta di riserva” proposta è da ritenersi improbabile; tuttavia, la sola minaccia di effettuarla può rafforzare il “peso contrattuale” dell’Italia nell’ottenere la compiuta attuazione e le revisioni necessarie degli accordi europei. Evidentemente, Savona, nel formulare il suo “gioco di prestigio”, è partito dal presupposto che gli altri Paesi membri dell’Unione (in particolare quelli dell’area tedesca) non abbiano valutato attentamente quali sarebbero le conseguenze se l’Italia uscisse realmente dall’eurozona. E poiché, per lo stesso Savona, le misure anticrisi del governo-Monti, lasciano presagire che i gli altri Paesi non siano disposti ad accettare possibili “azioni di ricatto”, non resterebbe che fare ricorso all’attuazione delle scelta giusta di scorta alla quarta; cioè l’uscita dall’eurozona e avviare l’Italia ad una crisi di transizione che la porterebbe a recuperare una presunta spinta alla crescita ripartendo da una moneta nazionale svalutata sul mercato dei cambi di almeno il 40% rispetto al valore dell’euro sul dollaro. In tal modo, L’Italia, pur discendendo di parecchi gradini sulla scala dei confronti internazionali, si porrebbe nella condizione di ricuperare le posizioni perdute nella graduatoria del Paesi del Mondo.
In questa prospettiva, la distribuzione del reddito non dovrebbe essere lasciata al mercato, ma dovrebbe essere affidata al Parlamento ed alla contrattazione tra capitale e lavoro con la conservazione e l’approfondimento delle antiche sperequazioni. E per quanto gravi possono risultare, le sperequazioni distributive non dovrebbero prescindere dal rispetto del principio che il patrimonio accumulato con il risparmio sia rispettato e si rinunci ad ogni possibile prelievo patrimoniale.
Nel formulare la sua proposta di contrattazione con gli altri Paesi europei e nell’illustrare i possibili effetti della fuoriuscita dell’Italia dall’eurozona, Savona si è posto evidentemente fuori dal mondo; egli infatti non ha attentamente considerato la condizione di estrema debolezza del sistema sociale italiano nel momento attuale. Come sarebbe possibile far pesare sugli italiani stremati dalla crisi l’ulteriore fardello di una svalutazione della nuova moneta nazionale rispetto alla capacità d’acquisto dell’euro attuale? Savona non ha pensato a tale effetto, a meno che egli abbia taciuto sulla necessità che sia il Parlamento nazionale che la contrattazione tra capitale e lavoro siano “dominati” dall’avvento di “Poteri forti” che servirebbero a far vivere al Paese esperienze del passato che ci si augura restino solo nella sua fantasia.
GIANFRANCO SABATTINI