martedì 24 maggio 2011

MILANO METAFORA DI NUOVI EQUILIBRI POLITICI NEL PAESE?

Milano, 23 maggio 2011 - Ritorno ai lettori di Mondoperaio e del suo blog, dopo aver scritto qui un’analisi degli scenari del voto a Milano quaranta giorni prima del voto al primo turno.
E ci torno oggi, quattro giorni prima del ballottaggio. Molte incertezze si sono chiarite all’interno di due evidenze: Letizia Moratti – anche per inconsistenza politica propria – ha ceduto allo stravolgimento della sua campagna che avrebbe potuto, per lei più fruttuosamente, stare sul terreno dello stile e della rendicontazione (terreno in cui la propaganda è abile a non sembrare tale); Giuliano Pisapia – anche per consistenza di intuizione, di staff e di tenuta psicologica e relazionale – ha aggregato il bisogno di “normalità” di una città come Milano e al tempo stesso il bisogno di cambiamento “ragionevole” ovvero di controllo di politiche e di apparati, di buona indipendenza dai partiti e di capacità di ascolto.
Quelle incertezze sono state colmate dal sentimento civico diffuso e dall’opinione “in proprio” di elettori che hanno fatto i conti con la realtà. Nel quadro del ballottaggio ciò è evidente rispetto al profilo impacciato di un Terzo polo che – come avevamo detto – sotto il 6% qui non riesce ad essere soggetto politico, perdendo l’occasione di diventare – non solo elettoralmente - ma anche politicamente parte di una vasta alleanza capace di allargare l’ambito in cui fare del sindaco un nuovo baricentro.
E’ così l’iniziativa civica – quella stimolata da Piero Bassetti a cui alcuni di noi hanno dato un contributo – a svolgere ora, in questi giorni a tempo pieno,  una funzione di raccordo e quindi a promuovere non le operazioni astratte di cartelli antiberlusconiani di palazzo, ma l’accoglienza di tanti frammenti e realtà che hanno mantenuto una loro identità culturale e politica in crescente disagio rispetto all’antipolitica crescente della destra.
La serata al Circolo De Amicis, programmata il 24 maggio, per fare incontrare il gruppo di progetto di “Iniziativa per il 51 e molti esponenti (laici e cattolici, socialisti e liberali, di nuova destra costituzionale o di più antica sinistra libertaria), segna dunque un approdo nel corso di una campagna altrove dominata dagli insulti, qui e in tanti settori del consenso a Giuliano Pisapia dominata dal fervore, dalla proposta, dal ritorno alla partecipazione.
Dai media oggi si colgono dunque segnali interessanti.
  • Scrive Pier Luigi Battista sul Corriere della Sera che la campagna elettorale a Milano – che ormai è scelta dai media e anche, per qualcuno che teme il palazzo romano a malincuore, dal sistema politico italiano come metafora dei nuovi equilibri negli orientamenti politici del paese – segna la trasformazione antropologica del centro-destra. Da antico posizionamento liberale a cettolaqualunque.
  • L’editoriale della Stampa, sempre di oggi, a firma di Luigi La Spina, si affianca a quell’idea, portando lo sguardo di Torino un po’ esterno alle cose milanesi; e mette infatti i punti esclamativi a questa lettura. Facendo a pezzi ogni possibilità della linea Moratti di riprendere eventualmente qualche contenuto razionale per salvare il salvabile. Aspettiamo un altro editoriale da La Spina per rivedere la sua idea che Pisapia vinca solo per colpa della Moratti, non facendo per ora lo sforzo necessario per vedere in Giuliano Pisapia – argomento non banale nella vicenda della sinistra italiana - le ragioni di tenuta della sua coalizione e  la capacità di costruzione di un baricentro responsabile della sua campagna e della sua proposta.
  • La pagina domenicale della Repubblica ha poi fatto uscire dal riserbo la figura del cardinale Tettamanzi segnalando la sintesi di scenario del mondo cattolico milanese (che tuttavia realisticamente Marco Garzonio, nell’editoriale sul Corriere Milano, continua a vedere equamente diviso tra le due parti). Dice l’arcivescovo: il cambiamento è ora necessario ed è auspicabile la rinascita della città.
Se insomma si può considerare Milano esperienza-laboratorio non solo per le conseguenze sulla politica nazionale ma anche per il problema di cosa sono oggi – al fondo – “destra” e “sinistra” (poco accettabile essendo ormai l’invito di Massimo Cacciari a considerare pari l’involuzione, pari lo smarrimento, pari la perdita di valorialità; argomento che ha avuto un banco di prova nella costituzione del Terzo Polo ma che a Milano dopo pochi mesi permette realistici giudizi di fragilità al centro e di rigenerazione a sinistra) si capisce l’entusiasmo di alcuni ambienti di cultura politica (università, associazioni, professioni, eccetera) a pensare ad un ritorno in auge di quella che fu la Milano del “Circolo Turati”. Si muterà tutto ciò che la storia chiede di mutare, ma lo spirito e la tensione che si leggono negli eventi non vanno sottovalutati.
Alla fine di una minoritaria (e sconfitta ancor prima di andare al voto) esperienza di campagna elettorale alle ultime regionali (come capolista indipendente con i radicali), ma dopo un mese di serrata analisi critica del sistema di potere politico-istituzionale al nord e a Milano, scrissi su Mondoperaio un articolo che avevo intitolato “Ora la riscossa borghese”. Gigi Covatta lo pubblicò col titolo più sfumato (pur sempre in una testata che continua a chiamarsi “Mondoperaio”) Classe generale cercasi (n.3/2010). Al fondo l’idea di riscossa era legata, più modernamente di quanto non sembri, al rapporto tra patria e etica pubblica. Capacità di guardare agli interessi generali e ritorno alla sobrietà nella politica e nella gestione. Per l’Italia un auspicio, per Milano una necessità. 
Il successo di Habemus Papam di Nanni Moretti (anche se per me un film in parte irrisolto) sta soprattutto nella grande metafora dell’insopportabilità dell’ostentazione del potere. Nella campagna elettorale di Milano tra gli apparati ministeriali e municipali di macchine blu, scorte, elicotteri, ville e case di Batman – tutto insieme a ben altro – lo straordinario bisogno di normalità, di biciclette, di famiglie come le altre, di foto in mezzo ai libri e non in mezzo ai soldi, è stato finora una bandiera di una borghesia (anche se si dovrebbe dire di una parte di borghesia) che su questo è tornata a dire la sua anche ai ceti medi accecati dalla mitologia – tutta televisiva e propagandistica – del successo a portata di mano da contrapporre alla sinistra piagnona e guastafeste.
In questi ultimi tempi una parte dello schieramento politico della destra ha cercato di cavalcare ancora la bandiera della responsabilità, rispetto al propagandismo del “facci sognare”. L’occasione del referendum Fiat ha fatto dire che – nella crisi economica e tra gli irrisolti di sistema – era meglio la destra per evitare demagogia. Alcuni socialisti che hanno scelto la destra – e in particolare lo scudo di Berlusconi - hanno tentato questo indirizzo. La partita di Milano segna la loro sconfitta, perché al loro modo di ragionare (che avrebbe anche potuto portare a un confronto tra liberali e progressisti all’europea) è stato preferito tutto ciò che discende dalla difesa a oltranza compiuta nella guerra del Bunga-Bunga. La sola Stefania Craxi – vedendo la solitudine e la denigrazione internazionale dell’immagine dell’Italia – ha dato un segnale coraggioso. Poi l’ordine di scuderia – con le elezioni in vista – è stato di militarizzare la comunicazione. A Milano si è scelto anche di fascistizzarla. Troppo, per il cuore “moderato” di Milano. Carlo Tognoli, alla finestra da un pezzo, pochi giorni fa è stato lapidario e chiaro: "Sono convinto che certi toni e un certo involgarimento abbiano indotto una parte degli elettori a spostarsi dal centro-destra al centro-sinistra. Pisapia è rimasto tranquillo, non ha nemmeno troppo parlato di politica, è rimasto sui problemi della città. E la gente lo ha premiato perché lo stile violento non è nelle corde di Milano. Milano è sempre stata moderata. La sinistra, qui, era riformista, non massimalista. E la destra erano i liberali di Malagodi. Oggi Milano ha ribadito la sua vocazione alla moderazione e ha dato un segnale a tutto il Paese".
E così mentre il centrosinistra milanese si riarticola, non lascia egemonie difficili (per la sua storia riformista) al solo PD, allarga alleanze sociali e politiche convergendo con ambienti che sono critici con la partitocrazia e cerca di rispondere alla chiamata di responsabilità con classe dirigente adeguata (qui si aprirà la vera partita a breve), il centro-destra chiama “responsabili” ciò che per tutti i soggetti che abbiamo fin qui evocato sono i protagonisti dell’irresponsabilità nazionale. L’economista Luciano Pilotti ha chiamato il primo fronte quello “dell’equilibrio tra rispetto e equità”, l’ex presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida ha chiamato il secondo fronte quello “dell’unico vero estremismo in campo con un Sindaco uscente prigioniera dell’ideologismo leghista”.
Come è noto – salvo stravolgimenti e cause di immensa incidenza – ai ballottaggi non si sovverte l’immagine e il posizionamento maturato nel più lungo confronto del primo turno. Così che – a quattro giorni dal voto – nel giudizio degli ambienti più responsabili della città un fronte ritrova il riavvicinamento di molti ambienti indotti ad avere fiducia perché non c’è comunità moderna che non abbia bisogno di governo. Mentre l’altro fronte viene congedato e invitato al suo purgatorio. Pena fatale e indispensabile alla natura della democrazia stessa. Con l’auspicio che il tempo di rimeditazione riconsegni un soggetto rinnovato, riqualificato e responsabile anche a destra nel prossimo confronto elettorale.  
STEFANO ROLANDO

mercoledì 18 maggio 2011

MILANO-OLBIA SOLO ANDATA PER BERLUSCONI

La sconfitta al primo turno del candidato di Berlusconi alle comunali di Olbia è un segnale altrettanto importante del 48,6% di Pisapia a Milano. C'è il ballottaggio da fare ma in condizioni di partita aperta, anzi apertissima per il centro-sinistra. Tuttavia sarebbe ingeneroso e politicamente sbagliato imputare al minore sex-appeal del Cavaliere le due sonanti sconfitte: il merito principale è della candidatura di Pisapia.
Una candidatura capace, dopo primarie vere, di riunire tutto il suo campo potenziale e non come De Magistris a Napoli di sperare un'unità anti-berlusconiana al secondo turno. Pisapia, l'ha ricordato nel comizio con Vendola, ha annunciato la sua candidatura l'11 settembre 2010 a Volpedo nel convegno internazionale del Gruppo di Volpedo, una rete di associazioni socialiste e libertarie del Nord Ovest con un espresso richiamo alle giunte a guida socialista di Milano e alle grandi città europee con Sindaco socialista. Suo grande sponsor è stato Piero Bassetti protagonista a Milano e in Lombardia delle migliori espressioni del centro-sinistra, basato sul rapporto PSI-DC. Ad un candidato così non si poteva appiccicare l'etichetta di estremista di sinistra: un'accusa talmente ridicola, che quando la Moratti ha cercato di accreditarla con un falso, si è rivelata un boomerang. Un'altra differenza con De Magistris è la capacità di Pisapia di attirare subito voti dal centro: a Milano il Terzo Polo è la metà di Napoli. C'è un solo tratto comune, tra Pisapia e De Magistris quello di ridurre i consensi dei grillini del Movimento 5 Stelle: a Milano e Napoli sono sotto ai risultati di Torino e soprattutto di Bologna. I candidati PD, tanto più quando appaiono vecchia politica e nomenklatura scatenano le pulsioni populiste e demagogiche dei grillini. La controprova si è avuta anche a Cagliari con la candidatura di Zedda, altro vincitore di primarie e attribuibile a SEL, a differenza di Pisapia. Pisapia si deve concentrare su Milano, ma indubbiamente c'è un modello Pisapia, che può insegnare qualcosa alla sinistra nel resto d' Italia. Chi fosse alla ricerca di un'Epinay italiana non ha bisogno di andare in Francia.
Milano, 17 maggio 2011
FELICE BESOSTRI, portavoce del Gruppo di Volpedo, Network per il Socialismo Europeo





lunedì 16 maggio 2011

CONTRA COFRANCESCO

Una delle caratteristiche distintive dell’homo liberalis è, o dovrebbe essere, l’anticonformismo: non programmatico o a priori, ma come risultato di un ragionamento che deve essere certo argomentato e non arbitrario ma che deve anche essere proprio, individuale, coraggioso (Sapere aude!, per dirla con Kant). E parlo di coraggio non a caso: percorrere le vie abituali del pensiero è utile, comodo, popolare. Non è agevole invece rimettere in discussione, alla luce dei fatti, le proprie idee o interpretazioni, i luoghi comuni solidificatisi, i facili schematismi mentali Queste considerazioni mi sono venute in mente leggendo due gratuiti attacchi rivoltimi recentemente da Dino Cofrancesco, rispettivamente in un’ampia recensione del mio profilo della cultura politica liberale del Novecento italiano contenuto nel volume Liberali d’Italia che ho scritto per Rubbettino con Dario Antiseri (Attenzione agli azionisti travestiti da liberali, “Libero”, domenica 3 aprile 2011: http://www.corradoocone.com/doc_sudime/13.pdf); e poi in un passaggio di un lungo, e debbo dire interessante, articolo pubblicato su un quotidiano online (Molte buone ragioni per cui sarebbe meglio non definirsi laici, “L’occidentale”, mercoledì 11 maggio 2011: http://www.loccidentale.it/node/105479).
Cofrancesco, come è noto, insieme ad altri studiosi, in primo luogo Ernesto Galli Della Loggia, ha scritto importanti saggi per dimostrare i limiti e l’influenza negativa sull’“ideologia italiana” dell’azionismo. E’ stato egli a coniare l’efficace termine di “gramsciazionismo”: sulla cultura e sulla retorica di un antifascismo a prescindere, si sarebbe costruita nel dopoguerra italiano una sorta di “legittimazione” del comunismo. Gli azionisti, autocertificatisi come la parte migliore o sana del Paese (l’“altra Italia”), diventati interessati “professionisti dell’indignazione”, hanno finito per assumere in politica un atteggiamento pedagogico e paternalistico che si è fatto intollerante ed escludente. In primo luogo nei confronti degli anticomunisti democratico-liberali. Si tratta di un’analisi dell’azionismo per alcuni versi condivisibile: essa, ho scritto nel mio libro, che Cofrancesco avrà letto distrattamente, coglie “alcuni aspetti indubbiamente in esso presenti”. Detto questo, ho però aggiunto che è un’analisi che non tiene conto della differenza di pensiero anche profonda che corre fra un azionista e l’altro: non è forse un caso che l’azionismo come partito abbia avuto vita breve, se esso ha potuto abbracciare posizioni che andavano dal liberalismo filoatlantico di un La Malfa o di un Visentini, solo per fare un esempio, fino al filocomunismo, che Cofrancesco porta come esempio, di un Lussu o di Augusto Monti. Citazioni, quella delle idee di questi ultimi due, opportune ma unilaterali: non si può prendere la parte che avvalora le nostre tesi e farle prendere il posto del tutto. Cofrancesco non fa altro, in questo modo, che fare ciò di cui mi accusa: “cambiare le carte in tavola per amor di tesi”. Ripeto: egli ha ragione, ma è come se, fatta una “scoperta” storiografica, abbia voluto generalizzarla ed estenderla, ingigantendola, oltre i propri limiti. L’azionismo è diventato col tempo un’ossessione per il nostro: lo vede dappertutto, tutti accusa di essere azionisti. Sembra quasi, leggendo i suoi scritti, che non di un piccolo partito si sia trattato, ma di un’illusione di massa degli italiani.
La scarsa attenzione che Cofrancesco presta alla lettura dei miei modesti scritti, che pur recensisce, lo porta spesso a non accorgersi nemmeno dei punti di contatto delle mie e sue posizioni. Io sono stato un tempo incasellato da lui nella categoria degli “azionisti” (forse perché ho scritto un libro con la Urbinati o perché mi sono illuso che “Critica liberale” fosse veramente liberale) e perciò, da allora, sono diventato portatore di tutte gli accidens, tutte le idee particolari, che quella substantia secondo il nostro implica. In conclusione: non passa nemmeno per la testa a Cofrancesco che uno possa ragionare con la propria testa ed essere a volte d’accordo con lui e altre volte no? Ma mi chiedo: non è proprio questa autonomia di pensiero, come si diceva, la vera espressione dell’homo liberalis? E quella mentalità azionistica idealtipica che Cofrancesco prende di mira non è, laddove esiste, succube dello stesso modo di ragionare per schemi e idee preconfezionate che ritroviamo, col senno cambiato, in Cofrancesco?
Venendo poi a Gobetti, va osservato che, anche a proposito del suo pensiero, il nostro “cambia le carte”: egli scrive infatti che, “per giustificare il suo entusiasmo per la rivoluzione bolscevica, Ocone dichiara che non si poteva prevedere quel che sarebbe avvenuto”. Io in verità dico che questo è un motivo esteriore, ma che ciò che maggiormente conta, dal punto di vista teorico, è “che Gobetti non ha mai simpatizzato con il comunismo ma tutt’al più con l’idea dei soviet: cioè con l’idea che qualcosa in politica si potesse costruire dal basso attraverso la libera partecipazione alla discussione dei cittadini”. E aggiungo che, paradossalmente, proprio questa concezione ideale del soviet rende chiaro che Gobetti non può essere considerato, come pure si fa, un giacobino. Mi sarei aspettato da Cofranceso, che per questa parte è fedele alle posizioni espresse su Gobetti da Giuseppe Bedeschi, una attenzione, ed eventualmente una critica, su questo aspetto specifico da me messo in evidenza, che giudico abbastanza significativo: non si trova spesso un autore che si dice “rivoluzionario” ma che non è affatto giacobino. Cofrancesco tuttavia non se ne è proprio accorto, confermando anche in questo caso di essere interessato allo scontro di idee preconfezionate più che ad una riflessione critica sui fatti. Così come non si è accorto del ruolo importante che, nella mia ricostruzione, ha un liberale conservatore come Nicola Matteucci: per me infatti la distinzione più importante non è, come egli crede, quella fra liberali di destra e di sinistra, ma l’altra fra liberali storicisti e giusnaturalisti.
In quest’ottica si capisce anche il più recente attacco alla mia persona. Definire da un punto di vista ideale i liberali, come io ho fatto, “tanto antifascisti quanto anticomunisti” non significa che anche nel fascismo e nel comunismo, come in ogni cosa umana, non si possono trovare idee condivisibili o trasfigurabili in un orizzonte liberale. Ma, allora, perché meravigliarsi che un liberale come Bobbio, fra l’altro in buona compagnia, possa apprezzare alcuni aspetti del marxismo? E perché parlare dell’equidistanza fra i due “anti”, ideale beninteso, come di una “mitologia”? Perché soprattutto definire per questa asserita equidistanza me e Massimo Teodori “pretoriani della Costituzione e della laicità” e ancora “i nuovi Mario Appelius della political culture egemone in Italia (nonostante, o forse anche per questo, i tanti anni di governo del centro–destra)?” Per quel che mi riguarda non mi ritengo pretoriano di nulla, proprio perché cerco di praticare, per quel che mi riesce, quella assoluta libertà liberale di ragionare su ogni cosa con la mia testa di cui si diceva all’inizio. Credo poi, anche qui contrariamente a quanto pensa il disinformato o distratto Cofrancesco, che la Costituzione, come ogni altra cosa umana, non sia un totem e che anzi andrebbe corretta in senso più liberale se l’opportunità politica non ci imponesse di soprassedere fin quando c’è in campo un personaggio come Berlusconi che ha strumentalizzato il tema ad usum delphini. E credo anche che la laicità intesa come un metodo sempre da ricalibrare si contraddica se si concepisce come sistema o come adesione a soluzioni preconfezionate e poco fluide. Aggiungerei poi un’ultima considerazione: almeno per quel che mi riguarda non mi ero accorto di stare dalla parte di una cultura egemone, ma anche qui, più probabilmente, Cofrancesco prende un abbaglio. Se fosse infatti la mia la cultura egemone in Italia, forse saremmo usciti da un bel pezzo da quel gioco a somma zero fra “azionisti” e “berlusconiani” che ci avvelena l’anima e non ci fa muovere un passo avanti.
CORRADO OCONE

domenica 8 maggio 2011

SEPARAZIONE CONSENSUALE NEL PD?


Come ci insegna la psicoanalisi, vi sono dei momenti nei quali i pensieri che quasi aleggiano nell’aria trovano un pensatore: una persona in carne e ossa che li esprime compiutamente. Così, forse, è accaduto anche nel corso di “Otto e mezzo”, quando Massimo Cacciari, ospite su La 7 di Lilli Gruber, ha evocato una sorta di separazione consensuale nel PD. Rispetto a temi quali l’iniziativa militare in Libia, il welfare e il mercato del lavoro, la politica industriale, la giustizia, le riforme istituzionali, ha notato il filosofo, nel partito di Bersani vi sono due approcci del tutto dissimili, che si neutralizzano a vicenda: uno riformista e liberale, l’altro più vicino alle posizioni di Antonio Di Pietro o di Nichi Vendola. Da qui l’impasse del PD e, con altri fattori, del quadro politico italiano.
Se è vero che la sinistra sovente si riproduce per scissione, è altrettanto vero che ormai da anni i cittadini paiono chiedere una riduzione della frammentazione delle forze politiche. L’ex sindaco di Venezia, però, parte da un dato: il grosso soggetto a vocazione maggioritaria del centrosinistra che tanti hanno sognato non è neppure nato. Due partiti operano di fatto nel PD: perché non prenderne atto e procedere alla loro separazione formale, senza escludere una loro alleanza stretta, fondata però sulla chiarezza e sul riconoscimento delle differenze? Perché, in definitiva, impedire agli elettori di pronunciarsi su linee politiche radicalmente diverse, fingendo di comporle in una sintesi impossibile?
E qui non possiamo sottrarci al confronto con la storia, senza con ciò illuderci. Su quei temi – lavoro, giustizia, Occidente ecc. – quale forza ha dato lo slancio riformatore più grande alla sinistra se non il PSI? Il pensiero in cerca di pensatore non è ora di rifare il grande PSI, ma di certo contributi come l’appello liberale / socialista di Massimo Teodori e Luigi Covatta, propositi di riforma della giustizia, elaborazioni volte a innovare e modernizzare il paese coniugando meriti e bisogni si nutrono anche di idee, suggestioni, proposte degli anni ’70 e ’80.
Cacciari ha indicato al PD la strada della separazione in maniera assai dimessa; eppure credo che non si tratti di un suggerimento estemporaneo.
DANILO DI MATTEO

venerdì 6 maggio 2011

CONGEDI - ALCEO RIOSA

Ha dedicato la vita agli studi sul movimento sindacale ed operaio.  E proprio il primo maggio ha dovuto chiudere, prematuramente, quella sua vita. Una strana, ormai inusuale e speciale atmosfera ha caratterizzato il suo congedo laico al Cimitero di Lambrate. Sono sempre difficili le cerimonie prive della liturgia e del contesto delle chiese. Il luogo cimiteriale, lo spazio anonimo, l’immensa centralità di una bara, tutto ciò rende la parola essenziale, un’architettura immateriale importantissima. Spesso insufficiente. Questa volta splendidamente accarezzante l’amico, il collega, il compagno, il parente da cui è difficile separare la memoria di infinite vitalità dalla necessità di parlarne al passato.
Alceo (nato nel 1939 a Monfalcone) era una persona colta, ironica, brillante. L’ho conosciuto nell’appartenenza alla redazione di Mondoperaio alla fine degli anni ’70, per poi averlo interlocutore di tanti eventi, di tante ricorrenze, negli anni miei alla Presidenza del Consiglio, dove il suo presidio – civile (vicepresidente della Fondazione Brodolini)  e scientifico – di una problematica al tempo non marginale (il lavoro!) era garanzia di assicurare anche idee, persone, spunti agli eventi che – in sede istituzionale o in sede politica – si dovevano affrontare.
Tornato io a Milano, in altro ambito universitario, le occasioni non sono state frequenti. L’ultima ai tavolini della pasticceria Cucchi, sotto casa mia, per commenti sugli stravolgimenti dei mondi che abbiamo conosciuto. Senza retorica, senza rinunciatarismo, senza reducismo. Chi pensa, scrive, produce, non vede mai il mondo finito, perché infinita è l’opportunità di interpretarlo e di descriverlo. Che sia poi anche infinita la possibilità di cambiarlo, ciò effettivamente rende le opinioni oggi piuttosto deboli, infragilite, con un tremendo senso del limite che fa chiamare ora “utopie” le cose che erano alfabeto di base dei nostri anni migliori.
A quelle utopie Alceo Riosa aveva dedicato un libro molto importante, Rosso di sera, pubblicato da Ponte alle Grazie nel 1996. Il Corriere della Sera – in una recensione di Dario Fertilio che conservo – l’aveva presentato come strumento per riflettere su una questione allora come ora per nulla banale, il senso di una storia appassionata di utopie che hanno preceduto il socialismo deformato dallo stalinismo ma anche dal professionismo burocratico; “presa d'atto di un tramonto definitivo, oppure annuncio di una possibile nuova alba socialista?”.
Una comunità commossa, una cerchia di persone colte e delicate che hanno portato con un certo anonimato frammenti colorati della storia di un intellettuale, la capacità di resistere all’applauso (sfogo di cerimonie invece dove la parola sostanzialmente è simbolo alto ma astratto), la restituzione di compresenze (tra cui l’ultima, di un ritorno alla passione per la sua “giulianità”, con studi su una città amata, Trieste, in quell’Adriatico irredento, pubblicato da Guida nel 2009), così il saluto di Milano al professor Alceo Riosa.
Come è stato di recente anche per Giorgio Rumi – pilastro della scuola storica milanese di matrice cattolica – cerimonia intensa, nell’assenza dei media (fatto salvo il bel pezzo di Arturo Colombo sul Corriere del 4 maggio), delle istituzioni e della politica. Già, lo stravolgimento maggiore – a cui dobbiamo, dobbiamo porre qualche rimedio – è che la rappresentazione della comunità è altrove rispetto a ciò che è storia, tradizione e contenuto vivo della sua ancora incompiuta evoluzione. 
STEFANO ROLANDO
 

VOLENDO PSI!: UN'EPINAY ITALIANA

VOLENDO PSI!: UN'EPINAY ITALIANA: "Come si fa – prendendo in prestito le parole di Antonio Giolitti - a costruire in Italia una sinistra “credibile, affidabile e praticabile..."

mercoledì 4 maggio 2011

VOLENDO PSI!: LA RIVOLUZIONE DEL BUON SENSO ITALIANO

VOLENDO PSI!: LA RIVOLUZIONE DEL BUON SENSO ITALIANO: "Ho letto con interesse la (amara) riflessione del direttore Macaluso sul futuro del centrosinistra. Annoto con soddisfazione che la sua vo..."