sabato 17 dicembre 2011

PASSIONI TRISTI, ANCHE IN POLITICA


Non di rado soprattutto gli anziani notano la tendenza odierna a una vita pubblica e privata spenta, senza slanci, con scarsa risonanza emotiva. Una sorta di elettroencefalogramma quasi piatto. Non a caso, forse, pullulano gli studi neuropsicologici sulla cosiddetta alessitimia: l’incapacità a riconoscere e a cogliere le emozioni, e magari la difficoltà persino a concepirle. Mentre proprio esse dovrebbero rappresentare il motore dell’esistenza, ciò che muove le acque impedendone la putrefazione.
Ponendo ascolto alle ultime vicende della cronaca e della politica, però, emerge forse un altro aspetto del fenomeno: il prevalere delle passioni tristi. E l’attuale fase socioeconomica indiscutibilmente le accentua. La commozione per la morte di un ragazzo che lavorava all’allestimento di un palco per un concerto oppure il dilemma dei dirigenti dem sulla partecipazione alle manifestazioni sindacali sono a loro modo esempi di passioni tristi. Non mancano pathos e coinvolgimento; fa difetto piuttosto la prospettiva. E così le discussioni intorno ai provvedimenti del governo Monti dividono l’opinione pubblica, ma sono circondate da un alone di tristezza.
Persino le storie più intime e personali – dalla vicenda di Lucio Magri ai travagli e agli amori delle persone “comuni” – paiono immerse in un’atmosfera triste. Passionale, a volte, però triste.
A giorni ci scambieremo gli auguri e probabilmente invocheremo spesso la speranza. La quale, tuttavia, a dar retta al filosofo Spinoza, rappresenta a sua volta una passione triste.
DANILO DI MATTEO

Tratto da IL RIFORMISTA del 17 dicembre 2011 

mercoledì 23 novembre 2011

MA IL BING BANG DEI PARTITI E' ALLE PORTE

E' curioso che Berlusconi abbia chiesto al presidente Monti l'impegno a non candidarsi alle elezioni del 2013. Se infatti il governo “tecnico” nasce per realizzare riforme impopolari, tali cioè da far perdere consensi a chi le fa, Berlusconi non dovrebbe temere l'eventuale concorrenza del Professore: chi voterebbe un governo da lacrime e sangue? Invece Berlusconi è preoccupato, e c'è da immaginare che qualche preoccupazione serpeggi anche fra i suoi dirimpettai del partito democratico.
Del resto un osservatore fra i più avvertiti, come Angelo Panebianco sul Corriere di oggi, non sottovaluta la “funzione latente” assegnata al nuovo governo: quella di “offrire alla politica partitica la possibilità di scomporsi e ricomporsi su nuove basi”; ed arriva addirittura, pur senza citare la fonte, a riproporre la ricetta craxiana dell'elezione diretta del presidente della Repubblica, al fine di responsabilizzare politicamente un potere che nelle scorse settimane si è rivelato indispensabile per sciogliere il groviglio determinato dall'irrazionale sovrapposizione del sistema elettorale maggioritario e della forma di governo parlamentare.
E' difficile, ovviamente, che nel calendario della legislatura in corso si possa aprire una finestra per riforme costituzionali di questa portata. Ma è significativo che un bipolarista convinto come Panebianco non invochi più, come logico complemento del sistema maggioritario, l'elezione diretta del premier, o qualche altra forma di rafforzamento dell'esecutivo. Anche lui, evidentemente, si aspetta che “per effetto del tramonto dell'era berlusconiana” nel sistema dei partiti si determini un Bing Bang. Che poi questo significhi “che l'era berlusconiana potrebbe essere stata solo un lungo intermezzo tra la fine della Dc e la sua rinascita” dipende solo dagli attori politici. I quali comunque non dovrebbero temere più che tanto se, in caso contrario, finissero “in cavalleria sia il bipolarismo che l'alternanza”: infatti il “cupo futuro di accentuata instabilità politica” che Panebianco paventa è già dietro le loro spalle.
LUIGI COVATTA

Articolo pubblicato da Il Riformista del 21 novembre 2011

martedì 22 novembre 2011

QUARESIMA E RESURREZIONE

“Son già sicuri di aver vinto, anche le maschere van giù, ormai non ne han bisogno più: son già seduti in Parlamento”.
È il 1973 e Giorgio Gaber canta la sua “presa del potere”. In un’Italia che gioca alle carte e parla di calcio nei bar, al governo arrivano l'intellighenzia e gli scienziati, i tecnocrati, bellissimi e hitleriani.
Dev’esserci un certo nostalgismo verso il proprio passato, nella posizione che nei giorni scorsi ha tenuto Giuliano Ferrara, uno che nella vita ha cambiato più volte casacca e religione.
Non si spiega altrimenti l’allarme dell’illustre Elefantino, che ha radunato i suoi mille per denunciare la reale natura del neonato governo Monti: un “furto di democrazia”, un “complotto delle banche”, un “golpe per mezzo di spread”, che espone il Paese al rischio di una “direzione etero-lobbistica”.
Una teoria, quella della sospensione della democrazia, cavalcata dallo stesso Silvio Berlusconi, che, subito dopo aver presentato le proprie dimissioni come atto di responsabilità e magnanimità verso il Paese, ha smesso gli inediti panni del pater patriae per rimettere quelli a lui certamente più consoni della vittima sacrificale. Sempre la stessa commedia, cambiano i congiurati: i giudici comunisti hanno lasciato il posto al “terrorismo dell'opposizione, della stampa, della stampa straniera”.
La polemica sulla presunta illegittimità del governo Monti, posta in questi termini, si esaurisce velocemente nella sua pretestuosità. Nulla osta, nella nostra carta costituzionale, il ricorso a un esecutivo di questo tipo. Esecutivo che, tra l’altro, gode di un’amplissima maggioranza parlamentare.  
Si potrebbe al massimo affermare, parafrasando Schumpeter, che l’unica sospensione cui assistiamo è quella relativa al momento della competizione elettorale. Una sospensione che appare non solo risibile ma anche auspicabile, a maggior ragione in virtù dei danni che il ricorso a una campagna elettorale permanente ha provocato, in termini di provvedimenti e di deresponsabilizzazione della politica, negli ultimi anni.
E pur tuttavia, la scelta di un governo tecnico in un momento di instabilità così grave riapre l’annoso dibattito sullo stato di salute dei partiti italiani.
Di crisi dei partiti si parla ormai da diverso tempo. Una crisi che riguarda, non soltanto e non più, la pretesa funzione di rappresentanza degli interessi di un elettorato sempre più disaffezionato e lontano dalle logiche tradizionali di affiliazione. Il malessere dei partiti italiani, a questo punto, coinvolge piuttosto la funzione di selezione e formazione delle classi dirigenti. In questo senso, la personalizzazione “impersonale” del ventennio berlusconiano è l’esempio più lampante di un fenomeno ben più diffuso e trasversale.  E ora che il vaso di Pandora è stato aperto, il governo dei tecnici si è insediato, dimostrando il fallimento di un’intera classe politica.
Non è questo il momento per discutere: di fronte a un’emergenza di queste proporzioni l’unità è l’unica risposta, e anche le faide partitiche dovranno aspettare. E pur tuttavia, paradossalmente, il governo Monti potrebbe offrire a una classe politica al tramonto un’inaspettata occasione di rifondazione. Quale occasione migliore di un’incombente crisi sistemica, per dimostrare di poter generare una classe di “politici di professione”, che, nel senso weberiano del termine, agisca con passione (Sachlichkeit), lungimiranza, e, finalmente, senso di responsabilità?
NOEMI TRINO

INDIGNADOS, LA VITTORIA DELL'UOMO QUALUNQUE?

Il PPE a guida Mariano Rajoy  ha sbaragliato i socialisti di Rubalcaba, sull’onda della protesta degli Indignados madrileni; negli States, il movimento di Occupy Wall Street mette alle corde il democratico Obama, eroe dei giovani yes we can; il neo formato governo Monti trova un’accanita opposizione, oltre che nella Lega Nord, in Libero, nel Foglio, nel Giornale che, senza mezzi termini, gridano al “Golpe Bianco”, alla sospensione della democrazia, alla dittatura di tecnocrati e banchieri. 
L’indignazione è forse diventata di “destra”? Ovviamente gli esperti di politologia storceranno  il naso ai miei improvvidi accostamenti. Hanno assolutamente ragione; anzi, tante e tali sono le peculiarità che caratterizzano gli scenari da me, provocatoriamente, accostati, che nulla accomuna Spagna, Usa, italica stampa… nulla, nulla tranne l’indignazione. Indignazione non tanto e non solo verso un “mal governo”, piuttosto contro un mal sistema, quello dei moltissimi vizi e delle pochissime virtù delle classi dirigenti (la nostra su tutte ma non solo…), dell’abbraccio mortale tra politica ed economia (mortale per la prima, si intende) dell’anomia dei mercati (con il crollo definitivo del dogma ultraliberista dell’autoregolamentazione dei sistemi finanziari). Contro tutto ciò, si indirizza la disapprovazione delle masse. 
Ma sono masse, per l’appunto, perché questa indignazione, e dispiace dirlo, è tendenzialmente apropositiva, qualunquista, disorganizzata. E non si incarna in un'ideologia ma riprende, stanca e confusa, eterogenei schemi esteriori di vieti ideologismi. E’ una folla sacrosantamente stanca di diseguaglianze e privilegi ma senza progetto, speranza, futuro; per questo non c’è visione d’ insieme, non c’è forza, non  c’è spinta, non vi è l’identificazione con un ideale comune per la cui realizzazione lottare - pacificamente, ovvio. Il problema di fondo è che il diffondersi dell’antipolitica, dato che accomuna queste torme di indignados, che ce l’hanno (ripeto, non senza fondamento) contro tutto e tutti, è un serissimo rischio per la democrazia. 
E non a caso ad accusare il colpo più duro sono le socialdemocrazie europee mentre ad aver gioco facile nel cavalcare l’indignazione, è proprio quella destra  neo liberista (ma assolutamente non liberale) che, ex abrupto, si scopre nazionalista, populista, repubblichina, demagoga  e che, come giustamente avverte Marco Revelli, si nutre di complottismo e dietrologia ed evoca la trama occulta dei banchieri che troppo da vicino ricorda spettri di congiura demo pluto massonico giudaica…. Popoli stanchi e svogliati sono facili prede di trascinatori forti e carismatici che, giocando sull’indignazione e le tasche vuote,  possono riportare in auge schemi novecenteschi, magari sotto altre forme, che credevamo appartenere ad un cupo passato. I governi “tecnici”, di visentiniana memoria, varati in Italia ed in Grecia sono, oltre che opportuni in questa congiuntura, assolutamente leciti, conformi alle procedure costituzionali dei rispettivi ordinamenti, democraticamente legittimati dai rispettivi parlamenti. Non è gridando ad una cospirazione che non c’è ma piuttosto riscoprendo il primato della politica, quale volontà cosciente ed impegno critico, quale attività per il benessere della polis, quale pratica comune, che sarà possibile convogliare l’attivismo degli indignados entro quella visione costruttiva necessaria per rifondare la nostra società su basi più giuste, libere ed eguali, che è poi l’idea fondante del liberalsocialismo.
LETTERIO DE DOMENICO



lunedì 7 novembre 2011

LO STORICISMO DI UN GRANDE INTELLETTUALE



Ho conosciuto Napoleone Colajanni soprattutto sulle pagine de Le ragioni del Socialismo, cogliendone subito la levatura e l’onestà intellettuale. Egli era, come noto, un riformista e un marxista. Così come alle idee di Marx, in particolare all’austromarxismo, si rifaceva il socialdemocratico Giuseppe Saragat. E lo stesso Riccardo Lombardi, proveniente dal Partito d’Azione, parlava un “dialetto marxista”.
Insomma: oggi gli under 40 sono abituati a citare Carlo Rosselli e a evocare il socialismo liberale, ma si è trattato per decenni di un filone politico-culturale di gran lunga minoritario.
Ho imparato molto dalla polemica Colajanni-Umberto Ranieri riguardo ad esempio alla definizione di Rosselli come “un pensatore confuso”, oppure ai capitalismi come approdo della storia. Per non dire del ruolo della “dialettica”, e quindi anche della lotta di classe o delle diverse visioni del mondo, nel dispiegarsi degli eventi.
Occorre in realtà ammettere che fu Bettino Craxi a suscitare in Italia l’impressione che un socialismo non marxista fosse pensabile e che potesse trattarsi di un fenomeno di massa. Il saggio su Proudhon e, più in generale, la valorizzazione del cosiddetto socialismo utopistico, la passione per Garibaldi, la rilettura di Ignazio Silone e dei Rosselli portarono centinaia di migliaia di persone a concepire e a percepire l’esistenza di un altro socialismo, umanitario, libertario e talora religioso. Non mancavano certo approssimazioni, superficialità e strumentalità in tale (ri)scoperta, ma il messaggio di fondo era chiaro e veniva colto: il socialismo non coincide con il marxismo.
In seguito si è compiuto un altro passo decisivo: collocare tutto ciò nel quadro del pensiero liberale di sinistra, forse soprattutto anglosassone. E così giungiamo all’humus grazie al quale si sono nutrite le ultime generazioni di riformisti.
Una volta Giorgio Benvenuto, allora leader della Uil, disse: è giunto il momento che Giovanni (liberale) e Giorgio Amendola (marxista) si diano idealmente la mano. Io con lo stesso spirito chiedo: non è tempo che i ragazzi venuti su con John Rawls e Amartya Sen si confrontino con un intellettuale come Colajanni e con il suo “storicismo”?
DANILO DI MATTEO

Tratto da Il Riformista di sabato 5 novembre 2011

mercoledì 19 ottobre 2011

ATTUALITA' DEL SOCIALISMO



Affidarsi allo spirito del tempo per valutare le idee politiche assicura il consenso e talvolta procura vantaggi materiali, ma può rivelarsi poco lungimirante. Per illustrare il fondamento di questa massima d’esperienza proviamo a gettare uno sguardo al panorama politico europeo verso la fine degli anni trenta, al tempo della guerra di Spagna. Ovunque, sul continente, il liberalismo è in crisi. Messo nell’angolo, e quasi costretto al silenzio, dallo straordinario successo di varianti del fascismo, già saldamente al potere in Italia e in Germania. La concezione liberale della vita ha ancora qualche illustre difensore tra gli esponenti della generazione nata alla fine del diciannovesimo secolo – come Benedetto Croce – ma appare destinata a estinguersi.
La situazione dei liberali europei appariva così compromessa che Stephen Spender, un giovane intellettuale britannico destinato a una brillante carriera letteraria, non si era fatto scrupoli di intitolare un suo libro Forward from Liberalism, cioè andare oltre il liberalismo. Per Spender, la filosofia pubblica di ispirazione liberale che aveva guidato la generazione di suo padre non era in grado di generare le risorse intellettuali e morali per contrastare la marea montante dei fascismi europei. Come tanti altri giovani – non solo britannici – della generazione cresciuta negli anni trenta, Spender decise di rivolgersi al comunismo in cerca di un’alternativa. Sappiamo come è andata a finire. A poco più di mezzo secolo di distanza, chi fece quella scelta di vita è stato sbeffeggiato per aver prestato fede alla propaganda staliniana, ignorando i segni evidenti dell’evoluzione totalitaria del regime sovietico. Ancora di recente, il figlio di uno di quei giovani convertiti al comunismo, Martin Amis, ha sentito il bisogno di scrivere un libro, Koba the Dread, per fare i conti con l’imperdonabile errore di giudizio del padre Kingsley, anche lui scrittore di talento, approdato nella maturità al conservatorismo. Come hanno fatto – si chiede Martin,  pensando al padre che non può rispondere, e ai tanti che ne condivisero le scelte – a credere alle bugie dell’orribile Koba (il nomignolo di Stalin)?
All’inizio del ventunesimo secolo, Amis figlio trova inspiegabile il comportamento del padre nel 1941. Ancor più incomprensibile il fatto che sia rimasto un membro del piccolo partito comunista britannico per altri quindici anni, quando ormai non poteva esserci più dubbio sulla natura totalitaria del regime sovietico e sui crimini di Stalin. Giovandosi del vantaggio conferito da una più ampia prospettiva storica, chi scriveva – come Martin Amis – nel nuovo secolo, avrebbe presumibilmente dato anche un giudizio completamente diverso sulla vitalità del liberalismo. Non ci hanno ripetuto fino alla nausea proprio in quegli anni che una società liberale era ormai l’unico orizzonte politico concepibile? Che la “rivoluzione liberale mondiale” – come la chiamava Fukuyama – si era compiuta con il crollo del muro di Berlino e la conseguente fine della storia?
Ricordarsi dei brutti scherzi che gioca lo spirito del tempo dovrebbe spingerci a diffidare di chi oggi sale sul proprio cadreghino liberale per ammonirci sull’irreparabile estinzione del socialismo. Chi professa tanta sensibilità allo spirito del tempo dovrebbe almeno prestare attenzione alla storia. Che suggerisce a che non è affatto prudente farsi condizionare troppo dall’opinione dominante in un dato momento e luogo nel giudicare dell’attualità, o delle prospettive future, del socialismo inteso come ideale politico. In fondo, come ha scritto Tony Judt, anche dello stesso liberalismo si potrebbe dire che è un’idea del diciannovesimo secolo con una storia nel ventesimo. Ciò non comporta affatto che abbia perso rilevanza all’inizio del ventunesimo.
Per valutare l’attualità e le prospettive del socialismo come ideale politico bisognerebbe prenderlo sul serio. Chiedersi se è convincente. Se i principi che lo articolano sono coerenti, e se siano o meno compatibili con altri principi cui riconosciamo un’autorità sul piano morale. Da questo punto di vista, come ha sostenuto Jerry Cohen, il socialismo non è messo così male. L’idea di un modo di relazione tra le persone che non sia guidato dalla ricerca del profitto, ma da una genuina solidarietà nei confronti degli altri, dovrebbe apparire immediatamente attraente. Specie se essa viene sviluppata, come avviene nei lavori di Cohen e in quelli di altri socialisti contemporanei, mostrandone il legame con una plausibile interpretazione dell’eguaglianza di opportunità temperata dall’aspirazione di preservare il legame sociale. Piuttosto che rivestirsi del piumaggio della nottola di Minerva per pronunciarsi sulla morte del socialismo, certi liberali nostrani farebbero meglio a provare a rispondere alla domanda posta da Cohen: perché non il socialismo?
MARIO RICCIARDI

Pubblicato su Il Riformista l’8 ottobre 2011