lunedì 7 novembre 2011

LO STORICISMO DI UN GRANDE INTELLETTUALE



Ho conosciuto Napoleone Colajanni soprattutto sulle pagine de Le ragioni del Socialismo, cogliendone subito la levatura e l’onestà intellettuale. Egli era, come noto, un riformista e un marxista. Così come alle idee di Marx, in particolare all’austromarxismo, si rifaceva il socialdemocratico Giuseppe Saragat. E lo stesso Riccardo Lombardi, proveniente dal Partito d’Azione, parlava un “dialetto marxista”.
Insomma: oggi gli under 40 sono abituati a citare Carlo Rosselli e a evocare il socialismo liberale, ma si è trattato per decenni di un filone politico-culturale di gran lunga minoritario.
Ho imparato molto dalla polemica Colajanni-Umberto Ranieri riguardo ad esempio alla definizione di Rosselli come “un pensatore confuso”, oppure ai capitalismi come approdo della storia. Per non dire del ruolo della “dialettica”, e quindi anche della lotta di classe o delle diverse visioni del mondo, nel dispiegarsi degli eventi.
Occorre in realtà ammettere che fu Bettino Craxi a suscitare in Italia l’impressione che un socialismo non marxista fosse pensabile e che potesse trattarsi di un fenomeno di massa. Il saggio su Proudhon e, più in generale, la valorizzazione del cosiddetto socialismo utopistico, la passione per Garibaldi, la rilettura di Ignazio Silone e dei Rosselli portarono centinaia di migliaia di persone a concepire e a percepire l’esistenza di un altro socialismo, umanitario, libertario e talora religioso. Non mancavano certo approssimazioni, superficialità e strumentalità in tale (ri)scoperta, ma il messaggio di fondo era chiaro e veniva colto: il socialismo non coincide con il marxismo.
In seguito si è compiuto un altro passo decisivo: collocare tutto ciò nel quadro del pensiero liberale di sinistra, forse soprattutto anglosassone. E così giungiamo all’humus grazie al quale si sono nutrite le ultime generazioni di riformisti.
Una volta Giorgio Benvenuto, allora leader della Uil, disse: è giunto il momento che Giovanni (liberale) e Giorgio Amendola (marxista) si diano idealmente la mano. Io con lo stesso spirito chiedo: non è tempo che i ragazzi venuti su con John Rawls e Amartya Sen si confrontino con un intellettuale come Colajanni e con il suo “storicismo”?
DANILO DI MATTEO

Tratto da Il Riformista di sabato 5 novembre 2011

2 commenti:

  1. Per ragioni anagrafiche ho fatto in tempo a leggere Napoleone Colajanni negli stessi anni in cui cominciavo a scoprire - attraverso gli scritti di Salvatore Veca, Giulio Giorello, Marco Mondadori, Paolo Martelli, Sabastiano Maffettone e Marco Santambrogio - la teoria della giustizia di John Rawls. Col passare del tempo, e anche per via dell'evoluzione dei miei studi e poi della mia ricerca, il dibattito originato dalla pubblicazione del libro di Rawls nel 1971 ha preso il sopravvento tra i miei interessi rispetto alla tradizione riformista italiana cui apparteneva Colajanni. Tuttavia, non ho mai pensato alle due come alternative. Al contrario. Come altri intellettuali riformisti (penso a Giorgio Ruffolo, a Federico Caffè o a Michele Salvati) Colajanni aveva il grande pregio di far interagire in modo fecondo la fedeltà ai principi di giustizia della tradizione socialista con la determinazione a non perdere mai di vista il contributo che la parte migliore del pensiero economico può e deve dare all'elaborazione di una cultura riformista. Persino un marxismo depurato dal dogma può essere, da questo punto di vista, come mostrano certi scritti di Jerry Cohen o di John E. Roemer, un contributo importante. Quindi non mi pare che ci sia incompatibilità tra Colajanni e Rawls o Sen.

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  2. Il mio ricordo di Napoleone Colajanni è circoscritto ad un singolo episodio, che risale alla fine del 2001. Esso segna anche l’inizio della mia collaborazione con Emanuele Macaluso. In quel periodo mi era capitato sotto gli occhi un articolo di Colajanni pubblicato su “Le ragioni del socialismo” in cui si definiva “confuso”, con argomenti che non condividevo, il pensiero di Carlo Rosselli. Mi sentii di far presente a Giovanni Matteoli il mio dissenso. Al che Matteoli e Macaluso mi chiesero di motivare le mie obiezioni in un saggio per la loro rivista, che poi effettivamente uscì, con il titolo Su Rosselli, Colajanni sbaglia, nel mese di gennaio del 2002. Le reazioni ad esso furono numerose: ricordo che ci fu anche un intervento di Maria Latella sul “Corriere della sera”. Fece infatti sensazione che, nella polemica, Macaluso avesse preso le mie parti e non quelle dell’amico del cuore di sempre. Credo che nella sua scelta fosse in gioco nulla di meno che la linea culturale e politica del riformismo italiano: con venature più liberali allora l’idea che ne aveva Macaluso, che non a caso aveva appoggiato la “mozione Morando” al Congresso straordinario dei Democratici di sinistra di Pesaro; più vicina alla socialdemocrazia e ad un certo realismo ed economicismo marxista, depurato dagli elementi finalisti, quella di Colajanni. Comunque sia, a me premeva mostrare l’intima coerenza dell’autore di Socialismo liberale, la priorità da lui accordata al concetto di libertà rispetto a quello di giustizia: “il liberalismo, nella sua visione, avrebbe dovuto essere “la forza ideale ispiratrice, il socialismo la forza pratica realizzatrice”.
    Ho rivisto qualche altra volta, in modo fugace, Colajanni nei seminari della casa editrice Laterza. Credo di essere sempre rimasto ai suoi occhi un liberale molto più che un socialista.
    Corrado Ocone

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