Affidarsi allo spirito del tempo per valutare le idee politiche assicura il consenso e talvolta procura vantaggi materiali, ma può rivelarsi poco lungimirante. Per illustrare il fondamento di questa massima d’esperienza proviamo a gettare uno sguardo al panorama politico europeo verso la fine degli anni trenta, al tempo della guerra di Spagna. Ovunque, sul continente, il liberalismo è in crisi. Messo nell’angolo, e quasi costretto al silenzio, dallo straordinario successo di varianti del fascismo, già saldamente al potere in Italia e in Germania. La concezione liberale della vita ha ancora qualche illustre difensore tra gli esponenti della generazione nata alla fine del diciannovesimo secolo – come Benedetto Croce – ma appare destinata a estinguersi.
La situazione dei liberali europei appariva così compromessa che Stephen Spender, un giovane intellettuale britannico destinato a una brillante carriera letteraria, non si era fatto scrupoli di intitolare un suo libro Forward from Liberalism, cioè andare oltre il liberalismo. Per Spender, la filosofia pubblica di ispirazione liberale che aveva guidato la generazione di suo padre non era in grado di generare le risorse intellettuali e morali per contrastare la marea montante dei fascismi europei. Come tanti altri giovani – non solo britannici – della generazione cresciuta negli anni trenta, Spender decise di rivolgersi al comunismo in cerca di un’alternativa. Sappiamo come è andata a finire. A poco più di mezzo secolo di distanza, chi fece quella scelta di vita è stato sbeffeggiato per aver prestato fede alla propaganda staliniana, ignorando i segni evidenti dell’evoluzione totalitaria del regime sovietico. Ancora di recente, il figlio di uno di quei giovani convertiti al comunismo, Martin Amis, ha sentito il bisogno di scrivere un libro, Koba the Dread, per fare i conti con l’imperdonabile errore di giudizio del padre Kingsley, anche lui scrittore di talento, approdato nella maturità al conservatorismo. Come hanno fatto – si chiede Martin, pensando al padre che non può rispondere, e ai tanti che ne condivisero le scelte – a credere alle bugie dell’orribile Koba (il nomignolo di Stalin)?
All’inizio del ventunesimo secolo, Amis figlio trova inspiegabile il comportamento del padre nel 1941. Ancor più incomprensibile il fatto che sia rimasto un membro del piccolo partito comunista britannico per altri quindici anni, quando ormai non poteva esserci più dubbio sulla natura totalitaria del regime sovietico e sui crimini di Stalin. Giovandosi del vantaggio conferito da una più ampia prospettiva storica, chi scriveva – come Martin Amis – nel nuovo secolo, avrebbe presumibilmente dato anche un giudizio completamente diverso sulla vitalità del liberalismo. Non ci hanno ripetuto fino alla nausea proprio in quegli anni che una società liberale era ormai l’unico orizzonte politico concepibile? Che la “rivoluzione liberale mondiale” – come la chiamava Fukuyama – si era compiuta con il crollo del muro di Berlino e la conseguente fine della storia?
Ricordarsi dei brutti scherzi che gioca lo spirito del tempo dovrebbe spingerci a diffidare di chi oggi sale sul proprio cadreghino liberale per ammonirci sull’irreparabile estinzione del socialismo. Chi professa tanta sensibilità allo spirito del tempo dovrebbe almeno prestare attenzione alla storia. Che suggerisce a che non è affatto prudente farsi condizionare troppo dall’opinione dominante in un dato momento e luogo nel giudicare dell’attualità, o delle prospettive future, del socialismo inteso come ideale politico. In fondo, come ha scritto Tony Judt, anche dello stesso liberalismo si potrebbe dire che è un’idea del diciannovesimo secolo con una storia nel ventesimo. Ciò non comporta affatto che abbia perso rilevanza all’inizio del ventunesimo.
Per valutare l’attualità e le prospettive del socialismo come ideale politico bisognerebbe prenderlo sul serio. Chiedersi se è convincente. Se i principi che lo articolano sono coerenti, e se siano o meno compatibili con altri principi cui riconosciamo un’autorità sul piano morale. Da questo punto di vista, come ha sostenuto Jerry Cohen, il socialismo non è messo così male. L’idea di un modo di relazione tra le persone che non sia guidato dalla ricerca del profitto, ma da una genuina solidarietà nei confronti degli altri, dovrebbe apparire immediatamente attraente. Specie se essa viene sviluppata, come avviene nei lavori di Cohen e in quelli di altri socialisti contemporanei, mostrandone il legame con una plausibile interpretazione dell’eguaglianza di opportunità temperata dall’aspirazione di preservare il legame sociale. Piuttosto che rivestirsi del piumaggio della nottola di Minerva per pronunciarsi sulla morte del socialismo, certi liberali nostrani farebbero meglio a provare a rispondere alla domanda posta da Cohen: perché non il socialismo?
MARIO RICCIARDI
Pubblicato su Il Riformista l’8 ottobre 2011
Corrado Ocone
RispondiEliminaArticolo condivisibile in ogni punto, anche se io non avrei parlato genericamente di "liberali nostrani" ma avrei fatto un nome e un cognome: Giuseppe Bedeschi. Penso che ricciardi si riferisse a lui, e in particolare al suo articolo sul "Corriere" di qualche giorno fa. Nella polemica intellettuale è sempre bene essere espliciti, chiari e franchi. sonno perfettamente d’accordo. Il problema di Bedeschi è di mancare di senso storico e di fare un discorso su principi astratti che sostituisce schemi mentali alla realtà. E’ il suo approccio, evidente anche nel modo in cui affronta la questione del liberalismo. Detto questo, è una bravo e onesto persona, orfano delle certezze granitiche del marxismo a cui, sulla scia del suo maestro Colletti, ha aderito per molti anni.
Caro Corrado,
RispondiEliminanon avevo in mente solo Bedeschi. Anche se hai ragione nel pensare che l'articolo cui tu alludi mi ha fornito lo spunto per le mie riflessioni sull'attualità del socialismo. Non credo che il problema sia esclusivamente la mancanza di senso storico delle cose che scriveva Bedeschi in quell'articolo. Ciò che trovo difficilmente accettabile è l'idea che la sinistra dovrebbe semplicemente abbracciare una versione piuttosto rozza dell'eguaglianza di opportunità liberale, senza nemmeno chiedersi - come ha fatto Rawls, per esempio - che conseguenze avrebbe in una società in cui i punti di partenza non sono affatto pari e non è immaginabile che lo diventino nell'immediato futuro. L'idea che la sinistra dovrebbe applaudire i vincitori di una gara unfair la trovo strana (anche se devo ammettere che Bedeschi non è il primo a sostenere stranezze del genere, pensa al "liberismo di sinistra" di Alesina e Giavazzi). Tutto sommato, da liberale, io vorrei invece che nella sinistra italiana ci fosse una forza socialista forte, capace di far sentire la propria voce in difesa degli svantaggiati.