24 settembre 2011 - Giuliano Pisapia torna a Volpedo, la città di Giuseppe Pellizza, l’autore del Quarto Stato, un anno dopo avere lì dichiarato la tradizione socialista degna del miglior rispetto e parte dell’ampio progetto di coalizione con cui avrebbe inteso scalare, con le primarie imminenti, la conquista di Palazzo Marino.
Come ha detto Felice Bestostri, nel salutare il sindaco di Milano nell’assiepato Consiglio comunale del borgo, l’idea del sindaco di rinunciare all’auto blu per questo genere di spostamenti, preferendo la guida dell’assessore Franco d’Alfonso – sì artefice delle due venute a Volpedo, ma anche reduce da una stressata missione in Spagna, così da assicurare per distrazione un’errata uscita dall’autostrada e quindi un solenne ritardo alla cerimonia – fa socializzare nell’attesa i convenuti nella calda e pigiata sala consiliare.
Fin che a me provoca l’idea di scrivere, qui sul tavolo della giunta, approfittando dell’attesa, un breve ultimissimo paragrafo che nel libro-colloquio fatto con Pisapia non ci sarà perché quel libro è oggi già in stampa e di prossima uscita con Bompiani, ma che resta idealmente la chiusura di un percorso – dalle primarie a al dopo 100 giorni – all’interno della rete di alleanze, amicizie, tessiture e raccordi che hanno portato a ribaltare dopo 18 anni la politica a Milano. Argomenti di cui in quel libro si parla diffusamente. Ecco l’appunto imbastito nell’attesa e poi chiuso l’indomani, grazie alle libertà della domenica.
Il tortonese è terra di confine tra Lombardia e Piemonte. Voghera di qua, Tortona di là. Un breve tratto di fittissima piccola e media impresa – tuttora luogo comune del nord – intervalla filari di pioppi nella campagna ordinata, a cui lo Scrivia garantisce acqua. Sfrecciano drappelli di ciclisti amatoriali (in senso ampio terra di Coppi, nato a Castellania e morto a Tortona) e, in pochi minuti, alle viste delle colline della Val Curone dominate dal Monte Giarolo, prima Viguzzolo e poi Volpedo.
L’alessandrino, anche qui, è vino e manifattura. Mio nonno paterno originava da questa provincia. A poco a poco, andando verso la valle, il disordine edilizio, cancro italiano, lascia il posto al decoro. Una pieve romanica, ben restaurata e ben circondata, mostra le tracce dell’economia turistica che comincia proprio qui e si sviluppa alle pendici della colline.
Mi dice il sindaco Giancarlo Filippo Pio Caldone – da quindici anni a guida di Volpedo, che non potendosi dire di statura è considerato di peso per essere rimasto da socialista (la foto di Riccardo Lombardi è nello studio) amato dalla gente di qui nella buona e nella cattiva sorte – che quando nel 2001 il “Quarto Stato” tornò per breve tempo nel ben conservato studio del pittore, la cosa portò 50 mila turisti al borgo, con gran beneficio per tutti e l’idea – assai ben proseguita negli anni – di dedicare una parte importante dell’identità del luogo proprio alla storia dell’artista, di ottima formazione e di talento, prima divisionista e poi tra i maggiori esponenti di una corrente artistica sociale, che diventerà icona stessa del novecento italiano.
“Benvenuto a Giuliano Pisapia, sindaco di Milano, che torna a Volpedo” è scritto sui manifesti affissi nella città. Tutto riproduce qui la fiumana umana, divenuta poi il “Quarto stato”, quadro del 1901, che conclude alcuni anni di ricerca attorno a un fatto di cronaca: una protesta ferma, ordinata, come una massa lirica, crescente, illuminata dal sole, di lavoratori (per lo più contadini, con qualche muratore e qualche falegname), guidata da due figure di spicco nella rappresentanza sociale (perché più anziani e più ascoltati dal popolo) e da una donna, in straordinaria guisa, che per il gesto e per l’infante in braccio segna la strada e incarna il futuro (Pellizza sceglierà tutti concittadini di Volpedo come modelli, pagati, per le pose e chiederà a sua moglie di posare per quella figura essenziale in prima linea).
Nell’attesa dell’arrivo di Giuliano ci diciamo con Giovanni Baccalini, che ama le spigolature storiche sulle vicende del socialismo milanese e lombardo, che quel bambino, anch’egli in posa nel 1901 sarà sottratto per un soffio dall’ultima chiamata alla leva militare obbligata alla prima guerra mondiale.
E vedrà tuttavia la grande trasformazione sociale del primo novecento, una prima urbanizzazione dalle campagne, la lunga storia del fascismo, la guerra, la resistenza (che diede al territorio alessandrino la medaglia d’oro al valor militare) e un pezzo abbondante di libertà riconquistata. Il Quarto Stato è opera di grande senso allegorico ed è al tempo stesso esito maturo di un artista di scuole importanti (milanese, toscana, romana, napoletana) e di uno spirito civile interno al moto così italiano e così lombardo del riformismo.
Non è solo questione di logistica il dibattito estivo, rimasto appeso, sulla collocazione finale di questo quadro nei luoghi dell’arte o della democrazia della città di Milano, che già nell’ottocento e ancor di più nel novecento era centro di gravitazione di questi territori. E lo era, in senso pieno, per Pellizza. Certo colpisce che l’opera intera di Pellizza – che si tolse la vita non ancora quarantenne per la depressione generata dalla scomparsa della moglie – coinvolga tuttora e così l’identità di questo luogo.
La casa-museo, l’associazione culturale che promuove ricerca, spazi per la rilettura tecnologicamente avanzata dell’opera, vie e dediche puntuali, eccetera. Una rilettura – presidiata con orgoglio da operatori e operatrici competenti – che resta ancora oggi nel solco del socialismo emancipatorio.
Più ci rifletto – nelle sollecitazioni evidenti del luogo – più considero sensata e non demagogica la scelta di Giuliano Pisapia di essere venuto e di tornare in forma così simbolica in questo luogo. Perché sta qui un fondamento possibile dalle maglie larghe, anzi larghissime, con cui vuol tenere insieme il suo sistema di coalizioni e di alleanze, senza far ricrescere la storica zizzania ideologica, ma lasciando tutti nella condizione di condividere radici oggi condivisibili. Per i socialisti, qui, è punto di riequilibrio molto pacificante.
Tanto che vari circoli attivi culturalmente e politicamente, pur nella diaspora che mantiene quasi tutti fuori dai partiti, hanno il loro crocevia in questo “gruppo di Volpedo” che si riunisce qui annualmente e a cui, appunto, l’ex senatore Felice Besostri presta il suo impegno di portavoce. Nei convegni e nelle testimonianze – non solo rivolte al passato – resta la trama della coniugazione della libertà e della giustizia, ormai elemento più sollecitante che la nostalgia per un partito pressoché cancellato dalla politica rappresentata.
Ma l’impresa di Giuliano Pisapia – che non è specificatamente parte di quella tradizione, anzi in arrivo da altri percorsi – è cresciuta misurandosi con tre esiti che qui sono ben presenti: quello di volere anche questo soggetto di tradizione nella sua compagine; quello di avere regolato conti nelle primarie con la sicurezza del PD di spuntarla vincendo invece il confronto; quello di rovesciare con dieci punti di distacco il berlusconismo a Milano.
Nella trasformazione che gli eventi hanno dato a questa vicenda ogni tassello è rimasto sé ma è anche diventato altro, dovendo cercare baricentri di nuove condivisioni. E dovendolo fare certamente ancora per un bel pezzo, perché i confronti maggiori devono ancora tutti arrivare. Ed è anche per questo che le poche ore dedicate oggi a questo luogo simbolico valgono come investimento nei valori appunto simbolici della tenuta di una rete in cui la pagina arancione è stata girata per tutti e obbliga tutti a guardare avanti.
Su questa riga, ora qui scritta, arriva a Volpedo Giuliano Pisapia e arrivano – qui al primo piano dove siamo pigiati da un pezzo - anche le note diffuse dall’altoparlante in piazza dell’Internazionale, apparentemente nella versione socialista, cantata in italiano (ma poi a cose fatte riprenderà la nota vecchissima querelle che sì, forse era la versione italiana, ma di tradizione musicale sovietica, perché quella italiana era più rallentata, eccetera, eccetera). Poi a saluti finiti arrivano anche le note dell’inno di Mameli. Vecchioni e De Gregori ora in panchina, dopo aver tirato la volata alla cerimonia.
Maria Rita Rossa, vicepresidente della provincia di Alessandria e assessore al turismo e alla cultura, parla con grande precisione e calore. Parla “degli occhi del Quarto Stato rivolti a un orizzonte lontano” e parla – in questa cornice – del senso di lasciare che siano gli ideali a spronare i semplici e magari banali progetti amministrativi. Il sindaco è tenace, didascalico, accogliente. La battuta che se a Milano si dovesse litigare su dove mettere il Quarto Stato lui se lo riprenderebbe pure a Volpedo non se la fa scappare e tutti ridono.
Giuliano Pisapia sceglie di parlare a braccio e di non superare i dieci minuti. Conferma le ragioni di allora e le ragioni di ora, guarda alle città e occhieggia al paese, sta dentro alle prove di quei “progetti amministrativi” ma conferma l’ineludibilità delle ispirazioni ideali. E poi apre un piccolo corteo attratto dall’attenzione filologica di molti luoghi per la vicenda di Pellizza.
Il palazzo Malaspina (poi Guidobono Cavalchini, già nella piazzetta Castello oggi ribattezzata Quarto Stato, che fu a fine ottocento la meta della protesta dei contadini, la casa-museo e il bellissimo studio di Pellizza dove si ripercorre uno struggente itinerario artistico e culturale, infine la scomposizione multimediale del quadro in cui si rileggono le storie dei concittadini che si prestarono come modelli facendo rivivere – allora e oggi (Pisapia esce commosso) - la coralità della comunità attorno a un dipinto che è stato – lo possono dire i volpediesi come i milanesi - motore della storia.
STEFANO ROLANDO
STEFANO ROLANDO
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