giovedì 7 aprile 2011

MILANO, QUARANTA GIORNI AL VOTO

Bisogna uscire da un certo impasse psicologico e dire che parlare politicamente di Milano in ambito nazionale è diventato sempre più difficile. Per diverse le ragioni, diversamente addotte.
Certo l’Italia considera Milano “casa” del berlusconismo. Cosa che trasforma in altro la specificità della situazione politica milanese. Milano poi, va detto, è meno simpatica di un tempo di un tempo agli italiani (salvo a coloro che la scelgono per lavorare e studiare, il che sarebbe un argomento forte di racconto). Appunto perché Milano è mal raccontata fuori dalla sua mitologia e dai suoi stereotipi. Le trasformazioni infatti contengono il nuovo bene e il nuovo male e dunque non bastano i media (centrati su notizie ed eventi, raramente su “processi”) a decifrarne il senso. Per tutte queste ragioni, tuttavia, il voto di maggio a Milano è interessante. Per i milanesi, per gli italiani e per l’Italia. Varie ipotesi si possono fare.
Rivince la Moratti?
Rispetto alla prima volta vi sono alcuni cambiamenti sonanti:
- la Moratti, per sua scelta, non è più “distante” dai partiti della sua coalizione, cosa che la configurava espressione della società civile che a sua volta ha, in parte, preso le distanze da lei;
- la sua coalizione – come a livello nazionale – ha perso alcuni tasselli (tra cui il presidente del Consiglio comunale che guida le liste del terzo polo in evidente dissenso), pur lasciando in coalizione le componenti già di  AN  più radicate nel voto delle periferie;
- la Lega conterà un terzo in più delle volte precedenti e ciò è assolutamente decisivo  in ordine alla formazione della nuova coalizione, caratterizzando un profilo più conflittuale con gli interessi borghesi cosmopoliti della città;
- la componente dell’UDC che la Moratti ha in giunta (e che vorrebbe restarci) è parte di un sistema di alleanze che, complessivamente, rema dall’altra parte o comunque contro (si contenderanno gli stessi bacini elettorali, riducendo così la “politicità” di questo apporto;
- l’Expo è stato conseguito dalla Moratti (segno +) ma di Expo si parla solo da due anni per segnalare infinite criticità gestionali (segno -);
- la macchina comunale è scontenta, irritata per nomine irrituali e portata a condizioni di minore efficienza;
- la questione sicurezza si è trasformata dall’emergenza migrazioni e microcriminalità in accerchiamenti mafiosi.
Per l’evidenza di questa analisi il premier Silvio Berlusconi – dopo un ponderato esame della questione con molti argomenti sollevati contro dal suo entourage – ha ritenuto di tornare per la quarta volta a guidare le liste del suo partito alle elezioni amministrative (le altre tre volte poi naturalmente sparendo dalla vita di Palazzo Marino) nell’ipotesi che la Moratti possa non farcela al primo turno rischiando moltissimo in sede di ballottaggio.
Per stressare la situazione elettorale al primo turno Berlusconi adotterà la sua tecnica di imporre il referendum pro o contro se stesso. La questione – viva nel suo stesso quartier generale – è se oggi questa demilanesizzazione della campagna, con un Berlusconi accreditato di consenso personale di poco superiore al 30% (Mannheimer),  non rischi di irritare moderati e indecisi producendo danni alla coalizione di centro-destra.
A buoni conti la campagna della Moratti è partita massiccia, professionale, finta e vera, in mezzo alla gente (nella pubblicità) ma con rendicontazione allineata all’idea che – salvo catastrofi – a un sindaco “di prestigio” si concede naturalmente anche il bis. 
Si afferma o non si afferma il terzo Polo?
Se esso si affermerà sarà perché la somma di API, FLI e UDC da un lato arriverà a sfiorare il 10% e dall’altro lato avrà comportamenti politici univoci. Ipotesi allo stato non sostenuta dai sondaggi. Solo strappando un grande successo, infatti, i tre partiti avranno l’obbligo di comportarsi da “terzo polo” e di mantenersi come soggetto politico globalmente autonomo, in grado di agire nel prossimo consiglio comunale con iniziativa comunque critica e indipendente. Soprattutto trovando una leadership che al momento di avvio della campagna elettorale è stata trovata ad una soglia non di “sicurezza” ma di “investimento”.
Se verrà dichiarata la “non affermazione” ciò sarà perché le tre liste (UDC, FLI e API insieme, più una civica) approderanno attorno al 6% (indicazione attuale dei sondaggisti), lasciando intravedere che la libertà lasciata agli elettori al secondo turno si traduca per metà in urne disertate e per l’altra metà in un voto spaccato a sostegno della Moratti (parte dell’UDC) e a sostengo di Pisapia (parte degli altri), con frammentazioni lista per lista.
Una sorta di auto-neutralizzaizone politica di un soggetto che non ha avuto il tempo per maturare un’evoluzione più consistente e programmata.
Ci sarà la sorpresa Pisapia?
Giuliano Pisapia – malgrado l’etichetta vendoliana che gli viene appiccicata dalla stampa di destra – è figlio di una rilevante famiglia borghese di Milano (padre celebre avvocato e professore universitario liberale, madre cattolica) e ha una vasta reputazione come legale. Come parlamentare è stato considerato indipendente (pur schierato a sinistra), portatore di battaglie civili interessanti e con convincimenti anche controcorrente (carriere separate dei giudici). Si è messo in ascolto di mondi diversi (donne, cattolici, sistema di impresa) e ha aperto un fianco al dialogo con una società borghese moderata che vuole il cambiamento non per ideologia tra destra e sinistra ma per riportare Milano nel mondo (un gruppo di iniziativa guidato da Piero Bassetti, presidente fondatore della Regione Lombardia). Ha battuto alle primarie il candidato del PD e questo gli provoca ulteriore indipendenza dai partiti e gli ha fatto trovare il consenso di liste minori (radicali, verdi, socialisti). L’establishment milanese ancora scuote la testa. Dice che non ce la farà. Dice che è debole, con fragile programma. Ma lui cresce ogni giorno. Promuove ascolto e dimostra non prevenzione ideologica.
Se perderà sarà in linea con le sconfitte ormai ventennali della sinistra. E lo sarà perché la “sinistra” è brand perdente rispetto alla maggioranza degli italiani oggi. Se perderà al ballottaggio, comunque, avrà l’onore delle armi che non hanno avuto i suoi predecessori.
Ma se vincerà se ne accorgerà l’intero paese – come se ne sarebbe accorto se Emma Bonino avesse vinto le regionali nel Lazio – per svariate ragioni.
Innanzitutto un segnale di ricomposizione del concetto di centro-sinistra con un PD che conta (trovando quindi il suo ruolo in una coalizione davvero plurale) ma non risolve, offrendosi inoltre– nella guida della città – come baricentro di questa pluralità politica rispetto al rafforzarsi di ruolo della società civile e dell’associazionismo, fonti di ampliamento e qualificazione della classe dirigente pubblica.  Obbligherà un sistema politico al nord mugugnante e rinunciatario a sviluppare rapidamente programmi di governo e classe dirigente adeguata a problemi di terzo millennio. Una partita difficile e rischiosa, che induce  a coraggio, non a vincoli di lottizzazione.
Che tutto ciò abbia proiezione sul quadro nazionale è chiaro. L’ eventuale sconfitta della Moratti e di Berlusconi in campo in prima persona a Milano rende tale contesto lampante. Ma questa idea trattiene, ovviamente, un pezzo del moderatismo indeciso milanese.
Un successo probabilmente metterebbe in movimento anche partite ora congelate ma scricchiolanti non solo a sinistra (la relazione critica tra Formigoni e la Lega, l’impasse della posizione del presidente della Provincia Podestà rispetto alla concezione della città di Milano propria della Moratti).
Quanto ai socialisti essi sono ora vera diaspora diffusa, tra radicamenti anticomunisti nel centro-destra, piccoli interstizi nel terzo polo, partecipazione all’area civica di Pisapia, e addirittura con un entrismo – in controtendenza – nelle liste del PD. Una condizione di governo metterebbe una buona parte di queste risorse in condizioni di portare esperienza e cultura di governo anche al di fuori del problema utopistico della ricostituzione partitica. Dunque un passaggio dalla nostalgia alla pluralità democratica rispettosa di alcune tradizioni di cui a Milano proprio i socialisti sono i maggiori portatori. 
STEFANO ROLANDO


5 commenti:

  1. da Guido Compagna:
    Nota molto lucida e che bello che torni la testata "Mondoperaio"!

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  2. Da pubblicazione del link su FB

    A Dario Ca, Lorenzo Spignoli e Aurora Martin piace questo elemento

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  3. Gentile Stefano, ho letto con interesse e non senza un lieve stupore la sua analisi delle imminenti elezioni milanesi. In particolar modo, mi sembra che il quadro che fa del "mondo socialista" a Milano, sia un po' confuso e, in parte, datato. Mi spiego: 1) se il termine entrismo è, nel suo ragionamento, intercambiabile con "opportunismo", beh, non esiste alcun entrismo e tantomeno sudditanza nei confronti del PD. La scelta di presentare candidati nelle liste democratiche risponde, infatti, ad un preciso accordo del partito nazionale. Inoltre, resta, ad oggi, l'unica vera opportunità per riportare dei socialisti nelle amministrazioni locali, senza sconfessare quella posizione riformista che contraddistingue il nostro agire politico. I "piccoli interstizi nel terzo polo sono pura fantasia, che risponde più ad un fin troppo sottile ragionamento di Cacciari (mai attualizzato) che alla realtà. Una licenza poetica, diciamo, che ne sostituisce una politica. I socialisti, o presunti tali, che stanno nel centro destra sono un residuato della (errata) fuga degli scorsi decenni e si tratta di singole persone che non rappresentano altro che sè stesse. La diaspora, anche in questo caso, è una leggenda metropolitana più vicina ai desiderata della Moratti (che ormai imbarca chiunque) che al vero. Infine, i socialisti stanno in un solo posto: nel Partito Socialista Italiano e il PSI sta nel solo posto, con estrema chiarezza, dove è sempre stato: a sinistra. Questo tipo di analisi non fanno bene non solo ai socialisti ma, tantomeno, all'analisi politica. Forse, al di là dell'innegabile rispetto per le opinioni di chiunque, andrebbero svolte con un po' meno leggerezza, con meno approsimazione e, certamente, con maggiore conoscenza dei fatti. Grazie comunque per aver dato la possibilità di chiarire ancora una volta il reale senso delle scelte socialiste a Milano. Cordialmente, Stefano

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  4. Grazie per le descrizioni ed analisi della situazione.Concordo con il fatto che i socialisti sono nel PSI ed a sinistra.
    Ciononostante sarebbe auspicabile rendere chiaro questa appartenenza agli elettori e non pretendere assertivamente cio' che - con tutta evidenza - non è evidente al pubblico.
    Fuori di barocche esrpessioni, se la diaspora socialista esiste nell'opinione pubblica e nei media non è colpa dei media o degli elettori, ma del PSI.

    Cio' detto, occorre trovare una soluzione per lanciare messaggi chiari di unità partitica.

    Simbolo, liste, piu' centralismo partitico, simbolo unico ovunque. Utopia?

    il progetto od è di lungo periodo o non è.

    A Milano, scusate, non capisco cosa succede. Sosteniamo Pisapia e non presentiamo il simbolo. Confermate?

    Ebbene cio' significherebbe essere al traino di un candidato perdente senza neanche guadagnare un minimo di visibilità. Sbaglio?


    Si è valutata la possibilità di un accordo con il nascente terzo polo, in chiave "laboratorio"?e presentando il simbolo?magari il garofano?

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  5. Caro Bettera, l'orgoglio di partito è apprezzabile. Ma se davvero la tradizione e l'eredità dei socialisti fosse oggi chiusa tutta dentro la pur lodevole riedizione del PSI si sarebbe compiuta la giapponesizzazione di una grande storia : in una teca. Ho cercato, pur brevemente, di dar conto (con qualche cognizione di causa)di una "cultura politica e di governo" che con maggiore complessità di un'operazione di lista potrebbe restiruire qualcosa ai socialisti in caso di affermazione di Pisapia. Ne parliamo dopo il ballottaggio. E' meglio.
    SR

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