mercoledì 13 giugno 2012

GRAMSCI E LA LIBERTA'


Di recente Luciano Canfora ha dato alle stampe il volume Gramsci in carcere e il fascismo. Non è possibile capire se il libro, nel quale la narrazione avviene in termini filologici stringenti e coinvolgenti, sorretta da un’erudizione che non è dato rinvenire in opere recenti a volte polemiche sulla vita carceraria del pensatore sardo, vuole essere una confutazione delle interpretazioni della “conversione” del prigioniero al tema della libertà durante il suo soggiorno in carcere; oppure se intende sottolineare la “sottile” strumentalizzazione del pensiero libertario di Gramsci effettuata dal PCI, impegnato, dopo il ritorno alla democrazia dell’Italia, nella transizione “dal solco del leninismo...nella socialdemocrazia distaccandosi dalla quale il partito era sorto”.

La libertà è uno dei temi centrali dell’opera del detenuto Gramsci, costituita dal corpus delle Lettere e da quello dei Quaderni. Nelle prime e nei secondi, la libertà è studiata “nel concreto e conflittuale suo dispiegarsi e inverarsi nelle lotte degli uomini”, ma anche nel suo aspetto di forza interiore che ha spinto Gramsci a continuare a combattere, senza alcuna genuflessione nei confronti dei suoi carcerieri, per liberarsi dalla pena inflittagli dal tribunale speciale fascista. Giustamente Canfora osserva che la testimonianza offerta dalle Lettere e dai Quaderni della lotta intrapresa da Gramsci per la libertà fino all’ultimo dei suoi giorni appare l’evento intellettuale più rilevante del Novecento italiano, sino al punto da “costituire “opera non effimera” ma classica “destinata a durare” e ad essere letta da tutti. A questo punto sorgono spontanee due domande. E’ plausibile che le riflessioni gramsciane sulla libertà siano ancora conservate all’interno di un “recinto di convenienza”, solo per giustificare l’evoluzione storica di un Partito che, in qualche modo, aveva contribuito ad “inguaiarlo” e che ha fatto del pensiero libertario di Gramsci solo uno strumento tattico per una sua legittimazione all’interno della storia nazionale? Non si compie, in tal modo, uno svilimento del pensiero gramsciano, negandone la sua valenza universale?

Per ricuperare il pensiero di Gramsci alla cultura del mondo, senza sconti o riduzioni, occorre invece considerarlo dal punto di vista del suo contributo alla definizione di una compiuta democrazia sostanziale, coniugando il concetto di libertà a quello di egemonia. L’uso del concetto gramsciano di egemonia nella spiegazione del modo di operare delle istituzioni proprie di un sistema sociale caratterizzato da procedure decisionali democratiche può sembrare un non-senso. Ciò perché il concetto di egemonia nelle analisi ideologiche marxiste è interpretato come lo “strumento” per la cui acquisizione i gruppi sociali subalterni lottano allo scopo di mettere fine al loro sfruttamento. In questa prospettiva interpretativa, la dinamica sociale non implica tanto la sostituzione dell’egemonia del gruppo egemonizzato all’egemonia del gruppo egemone, quanto la sua stessa traduzione in “egemonia del proletariato”, come garanzia di una democrazia sostanziale. In questo senso, l’acquisizione dell’egemonia non significa un’ "alternanza” dei gruppi sociali nell’esercizio del potere egemonico, ma il suo assolutizzarsi in uno solo dei gruppi antagonisti.

Una lettura coordinata delle diverse parti degli scritti gramsciani contenuti nei Quaderni consente di inferire una interpretazione della riflessione gramsciana sul concetto di egemonia del tutto alternativa a quella di natura ideologica. Per capire il significato che il concetto assume in questo contesto, occorre partire dalla definizione che Gramsci assume di società civile, intesa come l’insieme degli organismi privati intermedi che si collocano tra i singoli soggetti e la struttura istituzionale dello Stato.

Gramsci deriva il metodo di governo democratico dei rapporti tra i gruppi antagonisti inferendolo dalla forma in cui si svolge tra loro il rapporto egemonico. Esiste democrazia nel modo di operare delle istituzioni pubbliche quando è garantita la possibilità del passaggio dei componenti dei singoli gruppi da quelli diretti a quello dirigente. Fatto quest’ultimo che lega la democrazia stessa al pluralismo politico della società civile, trasformando l’esercizio del rapporto egemonico in un “governo delle differenze”.

Questa conclusione trova il suo fondamento nella necessità che l’esercizio dell’egemonia avvenga in modo socialmente equilibrato sul piano distributivo; l’equilibrio distributivo è la condizione perché la democrazia e l’evoluzione del sistema sociale non siano compromesse dal fallimento dell’azione dei gruppi dominanti. Se tale fallimento si verificasse, la democrazia potrebbe sfociare o in una sua disarticolazione, oppure nel suo superamento in una qualche forma di cesarismo. Sia nell’uno che nell’altro caso, a subirne il “costo” sarebbero tutti i gruppi che compongono il sistema sociale, non solo quelli egemonizzati, ma anche quelli sino ad allora egemoni. E’ questa la lezione della quale dovrebbero far tesoro quanti, tra coloro che appartengono ai gruppi egemoni, preferiscono, quando si verifica una situazione di crisi, tutelare ciò che hanno accumulato avvalendosi di uno scudo cesaristico o tecnocratico, anziché legittimarlo con una più equilibrata partecipazione alla ripartizione dei costi per il superamento del momento di crisi.
GIANFRANCO SABATTINI







1 commento:

  1. Finalmente un testo articolato e arioso.
    Anche autori liberal-socialisti come Fabio Vander e Nadia Urbinati hanno notato che in Gramsci lo spazio della e per la società civile non è saturo.
    Il concetto di egemonia, se non ridotto al ruolo-guida del Partito, aiuta a comprendere le dinamiche profonde legate al consenso, all'affermarsi e al prevalere di determinate idee-forza, al modo stesso con il quale la democrazia si fa concreta esperienza storica.

    Danilo Di Matteo

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