Una delle caratteristiche distintive dell’homo liberalis è, o dovrebbe essere, l’anticonformismo: non programmatico o a priori, ma come risultato di un ragionamento che deve essere certo argomentato e non arbitrario ma che deve anche essere proprio, individuale, coraggioso (Sapere aude!, per dirla con Kant). E parlo di coraggio non a caso: percorrere le vie abituali del pensiero è utile, comodo, popolare. Non è agevole invece rimettere in discussione, alla luce dei fatti, le proprie idee o interpretazioni, i luoghi comuni solidificatisi, i facili schematismi mentali Queste considerazioni mi sono venute in mente leggendo due gratuiti attacchi rivoltimi recentemente da Dino Cofrancesco, rispettivamente in un’ampia recensione del mio profilo della cultura politica liberale del Novecento italiano contenuto nel volume Liberali d’Italia che ho scritto per Rubbettino con Dario Antiseri (Attenzione agli azionisti travestiti da liberali, “Libero”, domenica 3 aprile 2011: http://www.corradoocone.com/doc_sudime/13.pdf); e poi in un passaggio di un lungo, e debbo dire interessante, articolo pubblicato su un quotidiano online (Molte buone ragioni per cui sarebbe meglio non definirsi laici, “L’occidentale”, mercoledì 11 maggio 2011: http://www.loccidentale.it/node/105479).
Cofrancesco, come è noto, insieme ad altri studiosi, in primo luogo Ernesto Galli Della Loggia, ha scritto importanti saggi per dimostrare i limiti e l’influenza negativa sull’“ideologia italiana” dell’azionismo. E’ stato egli a coniare l’efficace termine di “gramsciazionismo”: sulla cultura e sulla retorica di un antifascismo a prescindere, si sarebbe costruita nel dopoguerra italiano una sorta di “legittimazione” del comunismo. Gli azionisti, autocertificatisi come la parte migliore o sana del Paese (l’“altra Italia”), diventati interessati “professionisti dell’indignazione”, hanno finito per assumere in politica un atteggiamento pedagogico e paternalistico che si è fatto intollerante ed escludente. In primo luogo nei confronti degli anticomunisti democratico-liberali. Si tratta di un’analisi dell’azionismo per alcuni versi condivisibile: essa, ho scritto nel mio libro, che Cofrancesco avrà letto distrattamente, coglie “alcuni aspetti indubbiamente in esso presenti”. Detto questo, ho però aggiunto che è un’analisi che non tiene conto della differenza di pensiero anche profonda che corre fra un azionista e l’altro: non è forse un caso che l’azionismo come partito abbia avuto vita breve, se esso ha potuto abbracciare posizioni che andavano dal liberalismo filoatlantico di un La Malfa o di un Visentini, solo per fare un esempio, fino al filocomunismo, che Cofrancesco porta come esempio, di un Lussu o di Augusto Monti. Citazioni, quella delle idee di questi ultimi due, opportune ma unilaterali: non si può prendere la parte che avvalora le nostre tesi e farle prendere il posto del tutto. Cofrancesco non fa altro, in questo modo, che fare ciò di cui mi accusa: “cambiare le carte in tavola per amor di tesi”. Ripeto: egli ha ragione, ma è come se, fatta una “scoperta” storiografica, abbia voluto generalizzarla ed estenderla, ingigantendola, oltre i propri limiti. L’azionismo è diventato col tempo un’ossessione per il nostro: lo vede dappertutto, tutti accusa di essere azionisti. Sembra quasi, leggendo i suoi scritti, che non di un piccolo partito si sia trattato, ma di un’illusione di massa degli italiani.
La scarsa attenzione che Cofrancesco presta alla lettura dei miei modesti scritti, che pur recensisce, lo porta spesso a non accorgersi nemmeno dei punti di contatto delle mie e sue posizioni. Io sono stato un tempo incasellato da lui nella categoria degli “azionisti” (forse perché ho scritto un libro con la Urbinati o perché mi sono illuso che “Critica liberale” fosse veramente liberale) e perciò, da allora, sono diventato portatore di tutte gli accidens, tutte le idee particolari, che quella substantia secondo il nostro implica. In conclusione: non passa nemmeno per la testa a Cofrancesco che uno possa ragionare con la propria testa ed essere a volte d’accordo con lui e altre volte no? Ma mi chiedo: non è proprio questa autonomia di pensiero, come si diceva, la vera espressione dell’homo liberalis? E quella mentalità azionistica idealtipica che Cofrancesco prende di mira non è, laddove esiste, succube dello stesso modo di ragionare per schemi e idee preconfezionate che ritroviamo, col senno cambiato, in Cofrancesco?
Venendo poi a Gobetti, va osservato che, anche a proposito del suo pensiero, il nostro “cambia le carte”: egli scrive infatti che, “per giustificare il suo entusiasmo per la rivoluzione bolscevica, Ocone dichiara che non si poteva prevedere quel che sarebbe avvenuto”. Io in verità dico che questo è un motivo esteriore, ma che ciò che maggiormente conta, dal punto di vista teorico, è “che Gobetti non ha mai simpatizzato con il comunismo ma tutt’al più con l’idea dei soviet: cioè con l’idea che qualcosa in politica si potesse costruire dal basso attraverso la libera partecipazione alla discussione dei cittadini”. E aggiungo che, paradossalmente, proprio questa concezione ideale del soviet rende chiaro che Gobetti non può essere considerato, come pure si fa, un giacobino. Mi sarei aspettato da Cofranceso, che per questa parte è fedele alle posizioni espresse su Gobetti da Giuseppe Bedeschi, una attenzione, ed eventualmente una critica, su questo aspetto specifico da me messo in evidenza, che giudico abbastanza significativo: non si trova spesso un autore che si dice “rivoluzionario” ma che non è affatto giacobino. Cofrancesco tuttavia non se ne è proprio accorto, confermando anche in questo caso di essere interessato allo scontro di idee preconfezionate più che ad una riflessione critica sui fatti. Così come non si è accorto del ruolo importante che, nella mia ricostruzione, ha un liberale conservatore come Nicola Matteucci: per me infatti la distinzione più importante non è, come egli crede, quella fra liberali di destra e di sinistra, ma l’altra fra liberali storicisti e giusnaturalisti.
In quest’ottica si capisce anche il più recente attacco alla mia persona. Definire da un punto di vista ideale i liberali, come io ho fatto, “tanto antifascisti quanto anticomunisti” non significa che anche nel fascismo e nel comunismo, come in ogni cosa umana, non si possono trovare idee condivisibili o trasfigurabili in un orizzonte liberale. Ma, allora, perché meravigliarsi che un liberale come Bobbio, fra l’altro in buona compagnia, possa apprezzare alcuni aspetti del marxismo? E perché parlare dell’equidistanza fra i due “anti”, ideale beninteso, come di una “mitologia”? Perché soprattutto definire per questa asserita equidistanza me e Massimo Teodori “pretoriani della Costituzione e della laicità” e ancora “i nuovi Mario Appelius della political culture egemone in Italia (nonostante, o forse anche per questo, i tanti anni di governo del centro–destra)?” Per quel che mi riguarda non mi ritengo pretoriano di nulla, proprio perché cerco di praticare, per quel che mi riesce, quella assoluta libertà liberale di ragionare su ogni cosa con la mia testa di cui si diceva all’inizio. Credo poi, anche qui contrariamente a quanto pensa il disinformato o distratto Cofrancesco, che la Costituzione, come ogni altra cosa umana, non sia un totem e che anzi andrebbe corretta in senso più liberale se l’opportunità politica non ci imponesse di soprassedere fin quando c’è in campo un personaggio come Berlusconi che ha strumentalizzato il tema ad usum delphini. E credo anche che la laicità intesa come un metodo sempre da ricalibrare si contraddica se si concepisce come sistema o come adesione a soluzioni preconfezionate e poco fluide. Aggiungerei poi un’ultima considerazione: almeno per quel che mi riguarda non mi ero accorto di stare dalla parte di una cultura egemone, ma anche qui, più probabilmente, Cofrancesco prende un abbaglio. Se fosse infatti la mia la cultura egemone in Italia, forse saremmo usciti da un bel pezzo da quel gioco a somma zero fra “azionisti” e “berlusconiani” che ci avvelena l’anima e non ci fa muovere un passo avanti.
CORRADO OCONE
E' vero: in analisi come quella di Dino Cofrancesco si finisce per scorgere quasi ovunque l'azionismo. Certo: l'influenza di quella cultura è andata ben oltre il magro risultato elettorale conseguito nel 1946 dal Partito d'Azione, ma attribuirle un ruolo egemone nell'Italia "bianca", "rossa" e "nera" del dopoguerra sarebbe eccessivo. E, come sottolinea Corrado Ocone, bisogna distinguere fra le varie figure provenienti da quell'esperienza.
RispondiEliminaSi potrebbe citare pure, per rendere ancor meglio l'idea della complessità dell'argomento, il rapporto fra i radicali di Pannella e l'azionismo: da un lato vi è una vicinanza culturale di fondo, dall'altro vi è l'accusa dei radicali agli azionisti di aver "civettato" con i poteri forti (in ambito culturale, politico, economico), cadendo nella subalternità. Ma di subalternità si tratterebbe, non di egemonia.
Insomma: giocare sul filo del paradosso può farci bene, purchè non si smarriscano le proporzioni e non si rovescino le responsabilità.
Danilo Di Matteo
"Ma mi chiedo: non è proprio questa autonomia di pensiero, come si diceva, la vera espressione dell’homo liberalis?". quanto lo condivido... e quanto sono stato deluso, su questo, dall'accademia...
RispondiEliminaL'uso delle categorie, soprattutto per uno storico delle dottrine, è sempre questione delicata, che non andrebbe mai piegata a fini strumentali e politici, come purtroppo da tempo fa Cofrancesco e tutti coloro che, come lui, ritengono di essere gli unici detentori del verbo liberale, non accorgendosi, invece, di essere gli ultimi custodi dell'ideologia...
RispondiEliminaDa qualche tempo mi chiedo se abbia ancora un senso, o se un senso l'abbia mai avuto, il voler inserire a ogni costo autori e pensatori in categorie rigidamente stabilite a priori, o se questo lavoro archivistico non sia di necessità asservito a fini strumentali. Mi viene in mente quello che un pensatore certamente non liberale, o quanto meno liberale a suo modo, come Giovanni Gentile diceva delle licenze e delle lauree: "servono come le etichette ai barattoli, e in verità il barattolo può essere vuoto, o contenere altro che l'etichetta non dica". Insistere nel voler etichettare i pensatori - o anche i politici attivi, come recentemente avvenuto a Milano - inchiodandoli a definizioni fisse e, diciamolo pure, un po' stantie, non condanna chi viene etichettato, ma serve solo a chiudere l'orizzonte di pensiero di chi attribuisce l'etichetta. L'errore di Cofrancesco è quello di voler insistere nella catalogazione, non scorgendo "l'autonomia di pensiero" che giustamente Corrado Ocone pone come "la vera espressione dell'homo liberalis"
RispondiEliminaL' intervento del dott. Ocone fornisce, a mio personale giudizio, numerosi ed interssanti spunti di riflessione.
RispondiElimina1) Magari, nonostante le sue zone d' ombra ed eterogeneità, l' azionismo (rectius, l' azionismo nella sua componente socialista liberale) fosse stato cultura egemone in Italia. Benché la storia non possa mai esser fatta con i se e con i ma, il Nostro sarebbe, a giudizio dello scrivente, un Paese ben migliore.
2) Evidenti e preoccupanti risultati elettorali (fermo restando che il giudizio insindacabile del popolo vada sempre rispettato da tutti coloro che si professino liberali e democratici) , dimostrano come nel nostro Paese la cultura liberale e socialista, nel senso proprio dei termini e non nel loro uso distorto ed inflazionato che ne fa la comunicazione politica, sono tutto tranne culture egemoni. Oggi regnano populismo ed antipolitica, odio e faziosità, fomentati da un bipolarismo artificiale ed innaturale che si è voluto imporre al nostro sistema pur essendo incompatibile con il tessuto sociale e culturale italiano.
3)Condivido con Ocone la tesi per la quale essere antifascisti ed anticomunisti ( ed io direi meglio antiideologici) voglia dire guardare con equilibrio e in modo critico la storia a patto di non cadere in una falsa equidistanza che non può attagliarsi alla storia italiana.
4) Essere liberali fino in fondo è avere idee non ideologie, anzi è avere idee oltre le ideologie. Un liberale giudica le idee in base ai fatti e non i fatti in base alle idee, senza preconcetti o schematismi.
5)" Tutto è storia nient' altro che storia"; l' insegnamento crociano dovrebbe indurci a valutare i comportamenti degli uomini, le idee, i partiti, e tutto in ultima analisi, solo dopo un' accurata contestualizzazione storica. Oggi serve azione e serve indignazione, lo richiede il momento storico, oggi essere liberali è vivere la prassi politica con coraggio e rispetto dell' altro all' insegna di libertà e giustizia opponendosi con fermezza e, sì "indignazione", ai "mercanti della libertà" ed ai " denigratori della giustizia" con le potenti armi della democrazia e della partecipazione.
Letterio De Domenico, LUISS Guido Carli, giurisprudenza
“Per essere liberali, ci guardiamo dal teorizzare il liberalismo”, forse a Cofrancesco potresti citargli questa provocatoria frase dello stesso Gobetti, per fargli dialettizzare un po’ le sue posizioni. Il liberalismo di Gobetti, secondo me, non può essere capito se non si mette in relazione alla sua teoria sull’elitismo democratico (ancora poco approfondita) e del liberalismo come metodo di selezione delle leadership democratiche. E la stessa cosa si potrebbe dire delle idee spesso fraintese di quei molti azionisti che a Gobetti si ispiravano. Basti una citazione sola di Gobetti stesso: “il liberalismo si ispira ad una passione libertaria che vede nella realtà un contrasto di forze capace di produrre sempre nuove aristocrazie dirigenti a patto che nuove classi popolari ravvivino la lotta con la loro disperata volontà di elevazione; che intende l’equilibrio degli ordinamenti politici in funzione delle autonomie economiche e accetta la Costituzione solo come garanzia da ricreare e da rinnovare”. (“La Rivoluzione Liberale” II,19 - 1923)
RispondiEliminaMa se liberale vuol dire Cofrancesco allora vi invito a guardare sui link:
RispondiEliminahttp://iskra.myblog.it/archive/2012/03/30/massoneria-il-partito-dei-capitalisti-a-congresso-a-rimini.html - e - http://iskra.myblog.it/archive/2010/11/30/think-tanks.html. Se conveniamo, ora, che la nostra Costituzione è da rispettare in tutte le sue parti e sulla massoneria, in quanto associazionismo con valenza segreta (e aggiungo antidemocratica), ne vieta l'appartenenza, cosa ci fa a questi consessi il docente? Perché, se onesto intellettualmente, non dichiara la propria appartenenza ed abbandona la cattedra pubblica perché ha giurato fedeltà a questa Costituzione in quanto spergiuro? Codardia od opportunismo tipico dell'associazionismo segreto? Ai posteri la sentenza...