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mercoledì 25 luglio 2012

L’involuzione della democrazia nelle analisi di Pareto e Gramsci

I tempi che corrono in Italia e all’estero, all’interno dei cosiddetti Paesi di antica democrazia afflitti da una profonda crisi economica, sociale e politica, portano alla mente le riflessioni sulla democrazia di due grandi pensatori sociali cui l’Italia ha dato i natali: Vilfredo Pareto ed Antonio Gramsci.
Entrambi, per motivi diversi, tutti di natura ideologica, non sono apprezzati in patria quanto lo sono invece nel mondo; tutto questo non fa certo onore al nostro Paese.
Ma quali sono i punti di convergenza del pensiero di questi due grandi pensatori sulla democrazia?.
La risposta all’interrogativo sgorga spontanea non appena si ripercorrano, sia pure fugacemente, le loro riflessioni, leggendo i saggi raccolti in Trasformazione della democrazia, per Pareto, ed i Quaderni del carcere, per Gramsci.
Secondo Pareto, l’ordinamento sociale non è “mai in perfetta quiete” con un cambiamento che non si manifesta mai con la stessa intensità.
Il suo determinarsi è causato da un processo nel quale è possibile riconoscere alcune costanti, le principali delle quali sono un incremento sostenuto di ricchezza volta alla produzione, una sua distribuzione diseguale tra i componenti del sistema sociale e la formazione di due distinte classi (quella dei “ricchi”, proprietari di gran parte della ricchezza prodotta e accumulata, e quella dei “poveri”, proprietari dei servizi della loro capacità lavorativa).
Questo processo dicotomico della struttura sociale origina il fenomeno della plutocrazia, ed uno dei segni del contenimento dei suoi esiti indesiderati è l’estensione del suffragio universale e del metodo di governo democratico del sistema sociale.
Strumento efficace della plutocrazia per la difesa dei propri interessi è il parlamento, all’interno del quale siedono uomini che, sulla base di derivazioni (ovvero di trasfigurazioni ideologiche di concreti interessi), difendono i plutocrati. Per questo motivo, il metodo di governo democratico “segue in parte le sorti della plutocrazia...e le sue trasformazioni...si accompagnano colle vicende della plutocrazia”. 
Grazie quindi alla democrazia storicamente realizzata, ovvero all’alleanza del potere del numero nel parlamento e della ricchezza nel sistema sociale, viene legittimato il dominio dei plutocrati e lo sfruttamento dei lavoratori. L’alleanza, traducendosi nel “cane da guardia” dell’immodificabilità dello status quo, origina un processo degenerativo che corrompe sia il gruppo dirigente del sistema sociale, formato dagli stessi plutocrati e dai portatori dei loro interessi nel parlamento, sia lo stesso sistema.
Un gruppo dirigente, però, è utile alla cura dell’intero sistema sociale nel quale opera finché riesce a rinnovarsi con le energie morali ed intellettuali degli elementi migliori delle due classi, ovvero finché riesce a tutelare gli interessi di tutte le classi e non solo gli interessi di una soltanto. Quando il processo di rinnovamento si blocca, insorge una crisi del gruppo dirigente e dell’intero sistema, ed il “blocco” ha la conseguenza di aumentare il numero degli elementi degenerati compresi nella classe dominante, con grave pregiudizio per per il funzionamento della democrazia.
Non diversamente Gramsci, nei Quaderni del carcere, razionalizza il “sarcasmo di destra” di Pareto; per quanto critiche siano le sue riflessioni su questo sarcasmo, egli ne conferma la validità attraverso un’analisi della degenerazione che subisce il concetto di egemonia. Su tale concetto Gramsci fonda il governo dei rapporti tra la classe dei plutocrati (classe dirigente) e quella dei lavoratori (classe diretta), allorché, venendo meno ogni osmosi tra dirigenti e diretti, l’egemonia perde ogni consenso, degradando a puro dominio della classe dirigente.
Ciò significa che, per evitare rapporti di dominio sociale, l’esercizio dell’egemonia deve avvenire in modo equilibrato sul piano distributivo; se ciò non accade, l’ordinamento democratico del sistema sociale e la sua ordinata evoluzione corrono il rischio di essere compromessi dall’assolutizzarsi della posizione di dominio di una sola della classi antagoniste, con il possibile avvento di una qualche forma di “bonapartismo soft” (Pareto), oppure di una qualche forma di cesarismo (Gramsci).
Al di là delle opzioni politiche immediate dei due studiosi, forse segnate dalla classe di appartenenza, le loro riflessioni possono essere d’aiuto per comprendere la problematicità del tempo attuale.
Così, come il pensiero di Pareto non può essere svilito appiattendolo sul fascismo, nello stesso modo il pensiero di Gramsci non può essere svilito continuando ad appiattirlo sul bolscevismo. 
Entrambi ci presentano un’analisi appassionata dei limiti strutturali del governo democratico della società industriale moderna, ma anche un’analisi ugualmente appassionata della tensione implicita nell’ideologia universale della democrazia.
Le analisi di entrambi, infine, escludono che nel dominio del sociale possano valere forme di governo dei “professori”, i quali, presumendo di poter risolvere i problemi politici correnti secondo la prospettiva delle scienze sperimentali, rifiutando perciò ogni forma di consultazione coi destinatari delle loro decisioni, finiscono col sacrificare, anziché risolverli in positivo, i reali interessi di tutti i cittadini.
 
GIANFRANCO SABATTINI