martedì 26 giugno 2012

IL RUOLO E L'IMPORTANZA DEI DIRITTI SOCIALI


Le misure adottate o proposte dal governo Monti per rilanciare la crescita dell’economia italiana sono giudicate ispirate ad una ingiustificata ed eccessiva austerità; si prevede infatti che l’effetto di tali misure sarà non il rilancio della crescita, ma un ulteriore peggioramento dello stato depressivo del sistema economico nazionale, per via del fatto che l’austerità varrà a comprimere i diritti sociali acquisiti. 
Si osserva che sarebbe più efficace, ed anche più condivisa sul piano politico, l’adozione di provvedimenti volti a riformare la struttura istituzionale dello Stato ed a potenziare i diritti sociali, i quali servirebbero anche e rivitalizzare i diritti sia civili che politici. 
Al riguardo, si osserva anche che tra questi e i diritti sociali esiste un rapporto di mutua implicazione, nel senso che la tutela dei primi non può prescindere dalla tutela dei secondi e viceversa.
L’idea che il potenziamento dei diritti sociali possa costituire la premessa della crescita economica trae origine dalle teoria dello sviluppo dell’uomo di Amartya Sen. 
Il “motore della crescita”, secondo questa teoria, è rappresentato dalle capacità (capabilities) di acquisire liberamente lo “star bene”. 
Per questa ragione, Sen non condivide tutte quelle teorie che fanno della libertà un diritto privo di valore intrinseco; egli infatti critica le posizioni sul problema di John Rawls e Ronald Dworkin, in quanto questi ultimi si soffermerebbero sui beni e sulle risorse che portano alla libertà piuttosto che sull’estensione della libertà in sé stessa. 
I “beni primari” di cui parla Rawls e le “risorse” di cui parla Dworkin sono, secondo Sen, degli indicatori imprecisi di ciò che un soggetto è realmente libero di fare e di essere. 
La conclusione a cui egli perviene è che lo sviluppo di una determinata comunità storica dipende dalla decisione di garantire a tutti un’adeguata qualità della vita, cioè un well-being generale non ristretto dal solo riferimento a parametri economici. 
Coloro che condividono fideisticamente questa impostazione giungono perciò ad affermare che la crescita materiale sia strettante legata allo sviluppo umano, inteso in termini di libertà (development as freedom), ovvero di una vita che “fiorisce” in tutte le sue potenzialità.
Nessuno vuole discutere l’interesse e l’importanza della teoria di Sen; tuttavia, qualche riflessione sull’origine e sulla natura dei diritti sociali serve forse a ricondurre il discorso circa i provvedimenti che si devono assumere per rilanciare la crescita del sistema economico su un terreno un poco più solido. 
Un ruolo importante nel processo di reciproca compenetrazione dei diritti civili e politici, da un lato, e di quelli sociali, dall’altro, è stato svolto dal particolare status sociale, noto col nome di cittadinanza. Tale status è servito a legare i singoli cittadini all’intero gruppo sociale istituzionalmente organizzato ed a rendere gli stessi cittadini istituzionalmente uguali. Lo status di cittadinanza è l’esito finale della convergenza di due elementi essenziali: la cittadinanza come appartenenza ad un determinato gruppo sociale, ma anche come status-contenitore di un insieme tendenzialmente aperto di diritti, comprendente sia quelli civili e politici, sia quelli sociali. I primi definiscono, in termini pre-politici, rispettivamente, il diritto dei cittadini di partecipare liberamente al funzionamento delle istituzioni civili (diritto di libertà di iniziativa, di parola, di circolazione, ecc.) e il diritto di partecipare, sempre liberamente, al funzionamento delle istituzioni politiche. 
I diritti sociali, infine, definiscono il diritto per tutti i cittadini di partecipare alla fruizione degli standard di vita storicamente determinati su basi democratiche all’interno del sistema sociale di appartenenza. Il processo di allargamento della cittadinanza ha fatto da contrappunto al processo di democratizzazione dello Stato; tale processo è stato caratterizzato dal superamento dell’assolutismo politico. 
Le fasi successive hanno scandito il consolidamento della cittadinanza con l’avvento dello Stato di diritto informato ai principi del liberismo garantista, prima, ed a quelli del liberismo welfarista, poi. 
Questa evoluzione avrebbe dovuto segnare l’avvento di un sistema sociale caratterizzato in termini social-democratici.
Rispetto allo Stato di diritto garantista, quello welfarista avrebbe dovuto consentire una interpretazione più puntuale del concetto di cittadinanza; nel senso che a differenza dello Stato di diritto garantista, che considera la cittadinanza come presupposto della partecipazione dei cittadini al funzionamento delle istituzioni civili e politiche, lo Stato di diritto welfarista avrebbe dovuto considerare gli stessi diritti come esito del processo di partecipazione di tutti, su base paritaria, al funzionamento delle istituzioni politiche e la stessa partecipazione come dovere e non come diritto. 
Come corollario ne sarebbe dovuto seguire che, a differenza dello Stato di diritto garantista che considera prioritari i diritti sui doveri, lo Stato di diritto welfarista avrebbe dovuto considerare prioritari i doveri sui diritti, nel seno che ogni diritto avrebbe dovuto essere definito in funzione del sistema dei doveri entro il quale avrebbe dovuto essere definito.
Tutto ciò non è avvenuto, per cui all’interno dello Stato di diritto social-democartico italiano è stata realizzata solo una “democrazia zoppa” che ha consentito la formazione ed il consolidamento di profonde disuguaglianze economiche e sociali. 
E’ questa una considerazione che sarebbe stato utile tenere presente, non solo nelle formulazione delle riforme istituzionali da attuare; ma anche nello stabilire i contenuti de provvedimenti da assumere per finanziare il rilancio della crescita del sistema economico nazionale. 
Le riforme istituzionali sarebbero dovute risultare strumentali rispetto al coinvolgimento di tutti i cittadini nel sopportare il “peso” dell’austerità. In assenza di tali riforme, i sacrifici richiesti sono destinati a degradare in provvedimenti depressivi ed iniqui, in quanto oltre a sacrificare i diritti sociali dei deboli, continueranno a sacrificare i diritti civili e politici, perché non sorretti dalla necessaria legittimazione politica riconducibile alla percezione di una maggior giustizia sociale.
Gianfranco Sabattini


giovedì 21 giugno 2012

ELEZIONI 2013

Siamo ufficialmente entrati in pieno clima campagna elettorale in vista delle prossime politiche. Il fermento è evidente sui mezzi di stampa, in Parlamento, e nelle segreterie dei partiti, tranne nelle intenzioni dei cittadini dalla politica delusi e disincantati. Mai come questa volta la confusione regna sovrana sia in termini di alleanze, sia in termini di prospettive future, evidente colpa di una attuale classe dirigente usurata da un ventennio di discutibili scelte politiche, ma anche a causa di una crisi economica e sociale che non sembra arretrare e per la quale nessuno riesce a trovare una soluzione strutturale. Una cosa però è certa, dopo l’ ultima direzione del PD, il popolo della sinistra avrà primarie aperte di coalizione ed i socialisti un proprio candidato, questo mi sembra un buon inizio.
Sfumando le tante ipotesi fantasiose spesso frutto di riflessioni “ante noctem” nel web, l’attuale legge elettorale ci consiglia per le future elezioni di presentare dopo un ventennio finalmente i nostri candidati nelle liste con il simbolo del PSI. Questo è un dato dal quale bisogna partire e che dovrebbe convincere tutti : furbi, meno furbi, contestatori e scettici.
Per trasparenza di pensiero però, occorre ricordare a tutti i nostri tesserati e simpatizzanti che, le regole ma soprattutto la partita delle prossime politiche noi non la giochiamo in prima persona, visto che proprio quelle regole del gioco fondamentali direi, in questo momento le scrivono altri.
Si spera che al più presto ABC troveranno l’intesa su una legge elettorale che possa finalmente ridare il voto agli italiani, scongiurando però, e di questo non si è certi, forzature antidemocratiche dell’ultimo minuto e delle quali non mi stupirei: vedi alla voce porcellum e legge elettorale delle europee del 2009 con sbarramento al 4%, quest’ ultima posta in essere soltanto per evitare agibilità politica a tutte le forze politiche e dividere la torta dei finanziamenti pubblici in pochi.
Ora la domanda da porsi è unica, ma essenziale per la nostra sopravvivenza politica ed antropologica: se la legge elettorale cambiasse con un eventuale soglia di sbarramento molto alta diciamo al 5%, cosa farà il PSI ? Se questa sciagurata ipotesi diventasse realtà, eviterei la sindrome dello sfogatoio o uno scoramento generale con conseguente richiesta di congressi straordinari o anatemi da rivoluzione giacobina, perché sempre come ricordato prima le regole non le scriviamo certamente noi, ma anzi le subiamo.
Facendo gli scongiuri, se la legge elettorale sarà cambiata, uno dei tanti obiettivi sarà ovviamente quello di penalizzare i piccoli partiti, e se fosse così, allora consiglierei almeno per una volta a tutti i compagni di abbandonare lo spirito anarchico e contestatore presente nel dna di tutti noi socialisti, per fare delle riflessioni serie e concrete.
Occorrerà infatti costruire una mero cartello elettorale con altre forze, perché come tutti i sondaggisti ci indicano da sempre il PSI ha una forbice di crescita che in Italia non supera il 3%, evitando folli corse in solitario per mero spirito autodistruttivo.
Inoltre dobbiamo essere maturi nel capire che se regole saranno truccate nuovamente, bisognerà capire che la mera alleanza a sinistra del Pd dovrà essere un esercizio di sopravvivenza, non un atto di disonore, sempre se non decidiamo di farci cancellare dai grandi partiti che in virtù del voto utile nient’ altro aspettano che fagocitare tutti, Vendola incluso anch’esso in difficoltà dopo i recenti cali di consenso.
Nei prossimi mesi dobbiamo rimanere uniti, lo dobbiamo alla nostra storia, lo dobbiamo a noi stessi che da anni ci battiamo con passione infaticabile, lo dobbiamo anche ai nostri amministratori che grazie ai loro voti, un umile ed instancabile lavoro sul territorio hanno permesso in questo quinquennio di non chiudere per sempre la porta di Piazza S. Lorenzo in Lucina.
Evitiamo le tifoserie chiassose e le contrapposizioni sterili fatte di personalismi, che nulla hanno a che vedere con la visione politica che da sempre ci contraddistingue, decidiamo insieme cosa fare e salviamo la cultura socialista e l’ unico partito che  in Italia la rappresenta, sono convinto che il tempo sarà galantuomo nei nostri confronti e potremo scrivere insieme una nuova pagina per in nostro Paese.
Veritas filia temporis.
Luigi Iorio





mercoledì 20 giugno 2012

E’ scomparso Giorgio Ballistreri, dirigente socialista e fondatore della Uil


All’età di 90 anni è scomparso Giorgio Ballistreri, dirigente socialista e uomo politico, padre di Maurizio, commissario del Psi di Messina.

Giorgio Ballistreri nel dopoguerra, duranti gli studi universitari compiuti nella Facoltà di Scienze Politiche a Palermo, partecipò alla ricostruzione del socialismo democratico e autonomista e alla fondazione della Uil nel 1950 con Italo Viglianesi.

Funzionario statale, ricoprì numerosi incarichi al vertice del sindacato: segretario generale della Uil di Messina, componente dell’Esecutivo nazionale della Confederazione e del direttivo della Federazione unitaria nazionale Cgil-Cisl-Uil, presidente e segretario regionale della Feneal, il sindacato delle costruzioni della Uil. Sostenitore di una visione gradualista dell’azione sindacale, ispirato ai modelli sindacali del riformismo europeo per un equilibrio tra dialogo sociale, contrattazione e conflitto è stato protagonista degli “anni ruggenti” del sindacalismo italiano, tra il 1969 e il 1980, segnati da nuove frontiere dei diritti dei lavoratori.

Esponente del Partito socialista, è stato presidente dello Sdi di Messina e ha ricoperto anche importanti incarichi di gestione: consigliere di amministrazione dell’Ente Siciliano Partecipazioni Industriali, dell’Istituto Regionale per il Credito alla Cooperazione, dell’Iacp, della Cassa e Scuola edile di Messina, del comitato provinciale Inps.

Sino all’ultimo Giorgio Ballistreri ha speso le proprie energie sul versante sociale, nella qualità di presidente dell’Istituto di studi “EuroMed”.

Per la sua azione sociale e di leader sindacale ha avuto numerosi riconoscimenti: l’onorificenza di commendatore al Merito della Repubblica, la laurea honoris causa in Scienze Politiche dell’Università di Studi Superiori di New York, il libro “Il sindacato tra storia e attualità”, curato da un gruppo di studiosi universitari, edito nel 2004 da Edas e a lui dedicato.

Il 22 dicembre 2000, da presidente della Uil di Messina aveva voluto che nella piazza storica della sua città, dove con un gruppo di militanti socialisti e repubblicani costituì 50 anni prima la camera sindacale provinciale, quella del Duomo cattedrale, fosse realizzato un Monumento in bronzo dedicato al lavoro, “per ribadire – come si legge in un libro scritto per l’occasione – che la globalizzazione e il liberismo non possono pregiudicare il valore del lavoro e la centralità dell’uomo con i suoi diritti, individuali e collettivi”.

Tra i messaggi quello di Giorgio Benvenuto, leader storico del sindacalismo italiano, che ha ricordato come Ballistreri sia “stato un grande dirigente sindacale. Tenace organizzatore e costruttore del sindacato. Innovatore”.
I funerali si sono svolti nel Duomo di Messina, dove la figura di Ballistreri è stata ricordata dal prof. Santi Fedele, ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Messina.

lunedì 18 giugno 2012

LE SCELTE PER USCIRE DALLA CRISI SECONDO PAOLO SAVONA

Paolo Savona, in Eresie, esorcismi e scelte giuste per uscire dalla crisi. Il caso dell’Italia (2012), osserva che la crisi economica in atto all’interno dei Paesi dell’U.E. ha spinto l’opinione pubblica internazionale ad accusare l’Italia d’essere l’epicentro della crisi europea e non la costituzione debole dell’euro per via della zoppia politica’” che sinora ha privato l’Europa di un assetto costituzionale. In Italia, i cittadini si dividono in “partiti”, nel senso che alcuni ritengono che la colpa sia della concorrenza internazionale sfrenata; altri ritengono che la colpa sia dell’euro per la falcidia che avrebbe apportato al potere d’acquisto delle famiglie; altri ancora attribuiscono la colpa all’adesione dell’Italia al Patto di stabilità senza sviluppo o, in alternativa, all’immigrazione extracomunitaria e alle “ruberie” ed evasioni fiscali. Dallo stato confusionale in cui versa l’opinione pubblica nazionale sarebbe emerso, secondo Savona, una situazione nella quale l’Italia risulta adagiata su una china che starebbe riportandola indietro.
Per porre rimedio all’inevitabile declino, Savona ripercorre, retrospettivamente, le “eresie”, ovvero le scelte sbagliate che nei decenni passati, con il consenso degli elettori, sono state adottate e gli “esorcismi”, ovvero i provvedimenti ai quali di volta in volta si è fatto ricorso per neutralizzare gli effetti negativi delle scelte effettuate. Alle eresie ed agli esorcismi Savona fa seguire l’indicazione delle “scelte giuste” che sarebbe necessario effettuare per mettere definitivamente “alle spalle una crisi che dura da oltre mezzo secolo”. E dopo aver rinvenuto nella nazionalizzazione del comparto dell’energia elettrica, nell’approvazione dello Statuto dei lavoratori, nell’accettazione di vincoli connessi in particolare all’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht ed al suo ingresso nell’area dell’euro, alcune delle principali eresie che hanno dato la stura alla formazione ed alla crescita patologica del debito pubblico, Savona sottolinea che non è stato possibile impedirne o rallentarne la crescita con gli esorcismi delle manovre correttive man mano che lo stesso debito cresceva.
Considerata la situazione di crisi attuale, per Savona, il problema più urgente da affrontare è quello di “limitare i danni di un aggiustamento che proceda secondo le linee imposte da un’Unione europea guidata dal ‘blocco culturale germanico’”. A tal fine, propone di redigere un “Piano A” composto dalle scelte da fare per stare in Europa ed un “Piano B” composto dalle scelte da fare per uscirne. Se si decidesse di ricorrere al Piano B, cioè di uscire dall’eurozona (ma non ancora dagli accordi europei vigenti), l’Italia subirebbe sicuramente un contraccolpo grave, ma ricupererebbe il controllo di tre strumenti di aggiustamento che il Paese ha ceduto ad autorità soprannazionali. Tali strumenti sono: la possibilità per l’Italia di creare la propria moneta, di fissare autonomamente i propri tassi di interesse e di stabilire i propri rapporti di cambio con l’estero. Per ottenere effetti permanenti di risanamento dell’economia nazionale con il ricuperato controllo di questi strumenti Savona individua le scelte giuste che dovrebbero essere compiute. La prima dovrebbe essere l’individuazione di un luogo istituzionale dove concentrare le “menti elette“ delle quali dispone il Paese con il compito di curare gli interessi delle generazioni future. La seconda dovrebbe riguardare l’adattamento del mercato del lavoro alle necessità della concorrenza globale (altro che riforma Fornero!). La terza dovrebbe essere diretta a chiedere la riforma del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) e dell’IMF (Fondo Monetario Internazionale). La quarta scelta giusta, infine, dovrebbe consistere nel chiedere la completa attuazione e la riforma degli accordi europei vigenti (completamento dell’unione politica, unificazione delle politiche di bilancio, allargamento delle competenze della BCE (Banca Centrale Europea) e completamento della liberalizzazione del movimento dei fattori produttivi (persone, capitali, beni e servizi). Alle quattro scelte indicate, Savona ne aggiunge un’altra di scorta alla quarta: quella di prevedere l’uscita dagli accordi europei per ricuperare l’uso degli strumenti propri della sovranità economica, pur restando nel contesto degli “accordi globali” che reggono l’ONU, il WTO e il FMI.
A questo punto, Savona disvela l’intento di tutta la sua narrazione sulle vicende italiane degli ultimi cinquanta/sessant’anni. Egli pensa che nessun Paese dell’Unione abbia interesse a fare uscire l’Italia dall’eurozona, per cui la “scelta di riserva” proposta è da ritenersi improbabile; tuttavia, la sola minaccia di effettuarla può rafforzare il “peso contrattuale” dell’Italia nell’ottenere la compiuta attuazione e le revisioni necessarie degli accordi europei. Evidentemente, Savona, nel formulare il suo “gioco di prestigio”, è partito dal presupposto che gli altri Paesi membri dell’Unione (in particolare quelli dell’area tedesca) non abbiano valutato attentamente quali sarebbero le conseguenze se l’Italia uscisse realmente dall’eurozona. E poiché, per lo stesso Savona, le misure anticrisi del governo-Monti, lasciano presagire che i gli altri Paesi non siano disposti ad accettare possibili “azioni di ricatto”, non resterebbe che fare ricorso all’attuazione delle scelta giusta di scorta alla quarta; cioè l’uscita dall’eurozona e avviare l’Italia ad una crisi di transizione che la porterebbe a recuperare una presunta spinta alla crescita ripartendo da una moneta nazionale svalutata sul mercato dei cambi di almeno il 40% rispetto al valore dell’euro sul dollaro. In tal modo, L’Italia, pur discendendo di parecchi gradini sulla scala dei confronti internazionali, si porrebbe nella condizione di ricuperare le posizioni perdute nella graduatoria del Paesi del Mondo.
In questa prospettiva, la distribuzione del reddito non dovrebbe essere lasciata al mercato, ma dovrebbe essere affidata al Parlamento ed alla contrattazione tra capitale e lavoro con la conservazione e l’approfondimento delle antiche sperequazioni. E per quanto gravi possono risultare, le sperequazioni distributive non dovrebbero prescindere dal rispetto del principio che il patrimonio accumulato con il risparmio sia rispettato e si rinunci ad ogni possibile prelievo patrimoniale.
Nel formulare la sua proposta di contrattazione con gli altri Paesi europei e nell’illustrare i possibili effetti della fuoriuscita dell’Italia dall’eurozona, Savona si è posto evidentemente fuori dal mondo; egli infatti non ha attentamente considerato la condizione di estrema debolezza del sistema sociale italiano nel momento attuale. Come sarebbe possibile far pesare sugli italiani stremati dalla crisi l’ulteriore fardello di una svalutazione della nuova moneta nazionale rispetto alla capacità d’acquisto dell’euro attuale? Savona non ha pensato a tale effetto, a meno che egli abbia taciuto sulla necessità che sia il Parlamento nazionale che la contrattazione tra capitale e lavoro siano “dominati” dall’avvento di “Poteri forti” che servirebbero a far vivere al Paese esperienze del passato che ci si augura restino solo nella sua fantasia.
GIANFRANCO SABATTINI



mercoledì 13 giugno 2012

GRAMSCI E LA LIBERTA'


Di recente Luciano Canfora ha dato alle stampe il volume Gramsci in carcere e il fascismo. Non è possibile capire se il libro, nel quale la narrazione avviene in termini filologici stringenti e coinvolgenti, sorretta da un’erudizione che non è dato rinvenire in opere recenti a volte polemiche sulla vita carceraria del pensatore sardo, vuole essere una confutazione delle interpretazioni della “conversione” del prigioniero al tema della libertà durante il suo soggiorno in carcere; oppure se intende sottolineare la “sottile” strumentalizzazione del pensiero libertario di Gramsci effettuata dal PCI, impegnato, dopo il ritorno alla democrazia dell’Italia, nella transizione “dal solco del leninismo...nella socialdemocrazia distaccandosi dalla quale il partito era sorto”.

La libertà è uno dei temi centrali dell’opera del detenuto Gramsci, costituita dal corpus delle Lettere e da quello dei Quaderni. Nelle prime e nei secondi, la libertà è studiata “nel concreto e conflittuale suo dispiegarsi e inverarsi nelle lotte degli uomini”, ma anche nel suo aspetto di forza interiore che ha spinto Gramsci a continuare a combattere, senza alcuna genuflessione nei confronti dei suoi carcerieri, per liberarsi dalla pena inflittagli dal tribunale speciale fascista. Giustamente Canfora osserva che la testimonianza offerta dalle Lettere e dai Quaderni della lotta intrapresa da Gramsci per la libertà fino all’ultimo dei suoi giorni appare l’evento intellettuale più rilevante del Novecento italiano, sino al punto da “costituire “opera non effimera” ma classica “destinata a durare” e ad essere letta da tutti. A questo punto sorgono spontanee due domande. E’ plausibile che le riflessioni gramsciane sulla libertà siano ancora conservate all’interno di un “recinto di convenienza”, solo per giustificare l’evoluzione storica di un Partito che, in qualche modo, aveva contribuito ad “inguaiarlo” e che ha fatto del pensiero libertario di Gramsci solo uno strumento tattico per una sua legittimazione all’interno della storia nazionale? Non si compie, in tal modo, uno svilimento del pensiero gramsciano, negandone la sua valenza universale?

Per ricuperare il pensiero di Gramsci alla cultura del mondo, senza sconti o riduzioni, occorre invece considerarlo dal punto di vista del suo contributo alla definizione di una compiuta democrazia sostanziale, coniugando il concetto di libertà a quello di egemonia. L’uso del concetto gramsciano di egemonia nella spiegazione del modo di operare delle istituzioni proprie di un sistema sociale caratterizzato da procedure decisionali democratiche può sembrare un non-senso. Ciò perché il concetto di egemonia nelle analisi ideologiche marxiste è interpretato come lo “strumento” per la cui acquisizione i gruppi sociali subalterni lottano allo scopo di mettere fine al loro sfruttamento. In questa prospettiva interpretativa, la dinamica sociale non implica tanto la sostituzione dell’egemonia del gruppo egemonizzato all’egemonia del gruppo egemone, quanto la sua stessa traduzione in “egemonia del proletariato”, come garanzia di una democrazia sostanziale. In questo senso, l’acquisizione dell’egemonia non significa un’ "alternanza” dei gruppi sociali nell’esercizio del potere egemonico, ma il suo assolutizzarsi in uno solo dei gruppi antagonisti.

Una lettura coordinata delle diverse parti degli scritti gramsciani contenuti nei Quaderni consente di inferire una interpretazione della riflessione gramsciana sul concetto di egemonia del tutto alternativa a quella di natura ideologica. Per capire il significato che il concetto assume in questo contesto, occorre partire dalla definizione che Gramsci assume di società civile, intesa come l’insieme degli organismi privati intermedi che si collocano tra i singoli soggetti e la struttura istituzionale dello Stato.

Gramsci deriva il metodo di governo democratico dei rapporti tra i gruppi antagonisti inferendolo dalla forma in cui si svolge tra loro il rapporto egemonico. Esiste democrazia nel modo di operare delle istituzioni pubbliche quando è garantita la possibilità del passaggio dei componenti dei singoli gruppi da quelli diretti a quello dirigente. Fatto quest’ultimo che lega la democrazia stessa al pluralismo politico della società civile, trasformando l’esercizio del rapporto egemonico in un “governo delle differenze”.

Questa conclusione trova il suo fondamento nella necessità che l’esercizio dell’egemonia avvenga in modo socialmente equilibrato sul piano distributivo; l’equilibrio distributivo è la condizione perché la democrazia e l’evoluzione del sistema sociale non siano compromesse dal fallimento dell’azione dei gruppi dominanti. Se tale fallimento si verificasse, la democrazia potrebbe sfociare o in una sua disarticolazione, oppure nel suo superamento in una qualche forma di cesarismo. Sia nell’uno che nell’altro caso, a subirne il “costo” sarebbero tutti i gruppi che compongono il sistema sociale, non solo quelli egemonizzati, ma anche quelli sino ad allora egemoni. E’ questa la lezione della quale dovrebbero far tesoro quanti, tra coloro che appartengono ai gruppi egemoni, preferiscono, quando si verifica una situazione di crisi, tutelare ciò che hanno accumulato avvalendosi di uno scudo cesaristico o tecnocratico, anziché legittimarlo con una più equilibrata partecipazione alla ripartizione dei costi per il superamento del momento di crisi.
GIANFRANCO SABATTINI