mercoledì 31 agosto 2011

IL PREZZO DELLE SPIGOLE

Ma davvero si può dimezzare il numero dei parlamentari in novanta giorni, come pensano Ceccanti, Veltroni, e da ultimo Enrico Morando? E perché bisognerebbe farlo? Per ridurre i “costi della politica”, come se si trattasse di aumentare il prezzo della spigola al ristorante del Senato? O per introdurre di fatto una clausola di sbarramento, e semplificare così il sistema dei partiti più efficacemente (e forse meno casualmente) di quanto non abbiano fatto finora l’uninominale ed il maggioritario? Oppure per rendere più spedito il procedimento legislativo? E in tal caso, che fare del bicameralismo perfetto? Interrogativi analoghi si potrebbero porre riguardo alle Provincie, che pure, sul Corriere del 27 luglio, avevano trovato un difensore di prestigio in Valerio Onida, vox clamantis in un deserto di pressappochisti; o riguardo agli enti pubblici, che a quanto pare sono tanto più utili quanto più sono gonfi di personale: per concludere che la logica dei “tagli lineari”, discutibile se applicata alla spesa pubblica, diventa devastante quando viene applicata agli equilibri istituzionali.
La verità è che maggioranza e opposizione anche in questa emergenza denunciano il loro deficit di visione “costituente”: un deficit genetico che vent’anni fa si manifestò con la pretesa di fondare una nuova Repubblica attraverso la semplice modifica delle leggi elettorali, e che ora inquina anche la politica fiscale. A ventiquattr’ore dalla manovra, del resto, lo rilevano tutti i commentatori: i quali, più o meno indulgenti sull’efficacia ad horas delle misure prese, unanimemente esprimono preoccupazione per le prospettive del paese. Delle quali in effetti non si può che essere preoccupati in presenza di una classe dirigente che aumenta l’età pensionabile delle donne ma non tocca le pensioni d’anzianità; che introduce surrettiziamente una riforma dello Statuto dei lavoratori matura da un quarto di secolo; che colpisce i redditi medio-alti per non introdurre un’imposta patrimoniale; che ciancia da vent’anni di federalismo e poi affida le sorti delle Provincie e dei piccoli comuni al pallottoliere del censimento; che promette (anche alla Bce) la liberalizzazione dei servizi pubblici locali dopo aver lisciato il pelo ai referendari dell’acqua pubblica.
Perciò, nelle settimane scorse, in molti abbiamo auspicato l’avvento di un “governo del Presidente”: per esentare questa classe dirigente da responsabilità troppo onerose nel fronteggiare l’emergenza; e per lasciare finalmente alle forze politiche la libertà di confrontarsi sulle prospettive del paese senza obblighi di schieramento. Si potrebbe così ragionare con più ponderazione dell’architettura istituzionale, magari costringendo anche le Regioni a stendersi sul letto di Procuste del censimento, o riducendo il numero dei ministeri che federalisti d’accatto vorrebbero invece trasferire a Monza; si potrebbe concertare un nuovo patto sociale che ricollochi i principi universalistici cui si ispirarono i legislatori di quarant’anni fa in un contesto in cui è aumentata di un terzo l’aspettativa di vita ed è diminuita di un terzo l’occupazione giovanile; si potrebbe discutere serenamente di riforma della giustizia senza l’ossessione del cui prodest?; e si potrebbe perfino deliberare una nuova legge elettorale: per non parlare del prosciugamento dell’acqua in cui nuotano gli Scilipoti che si determinerebbe in un Parlamento in cui il sostegno al governo fosse più ampio di quello di cui oggi gode Berlusconi.
Quanto ai “tagli lineari”, sono necessari anch’essi. Anche sui “costi della politica”. E se in novanta giorni è difficile dimezzare il numero dei parlamentari, in molto meno si può dimezzare il costo di ciascun parlamentare: senza doppia lettura e senza maggioranza qualificata.  
LUIGI COVATTA
Articolo pubblicato da "Il Riformista", 17 agosto 2011