Anni fa si dissertava copiosamente sulle “due sinistre”:
quella radicale, incarnata soprattutto da Fausto Bertinotti, e quella
riformista. Oggi viene proposta con insistenza un’altra dicotomia: si andrebbe
delineando a sinistra una frattura insanabile fra liberal e neolaburisti. Da
qui l’esigenza di collocarsi da un lato o dall’altro: un vero aut-aut.
Eppure i meno smemorati hanno bene in mente che alcuni fra i
momenti più esaltanti e fecondi della sinistra del Novecento sono scaturiti
dall’incontro fra il pensiero e le pratiche dei liberali e quelli dei
socialisti. Lo stesso Stato sociale, che ha caratterizzato il “trentennio d’oro
socialdemocratico”, è in gran parte stato il frutto delle intuizioni di
liberali come Keynes e Beveridge. Per non dire dell’influenza della tradizione
laburista britannica e del fabianesimo su autori come Carlo Rosselli, teorici
del socialismo liberale. O dello sforzo di elaborare, in anni più recenti, una
linea lib-lab, tale da coniugare i meriti con i bisogni. Un tentativo
riproposto poi, sotto l’influenza di Tony Blair e di Anthony Giddens, in
versione “lib-lib-lab”.
La condizione sociale, naturalmente, non si esaurisce in
quella lavorativa. Altri fattori, oltre alle ore trascorse a lavorare e al
reddito, influenzano il nostro benessere: dalla situazione abitativa a quella
del quartiere, dall’accesso all’istruzione, all’informazione e alla cultura
alla diffusione e alla qualità di servizi quali quelli sanitari o gli asili
nido. Senza dimenticare i problemi di fasce significative della popolazione
colpite dalla disabilità o dai disturbi psichiatrici gravi, oppure l’importanza
o anche la centralità ormai assunta nella vita di molti dal tempo libero.
D’altro canto, però, come non scorgere nell’inoccupazione o
nella “cattiva occupazione” soprattutto di tanti ragazzi un motivo di
frustrazione e di degrado della stessa convivenza civile? Il rimedio non
consiste, come ovvio, nel riproporre il mito della piena occupazione. Occorrono
piuttosto politiche volte a dare concretezza alla formazione permanente, a
promuovere occasioni di crescita e opportunità per ampliare gli orizzonti.
Volte a motivare i singoli e i gruppi e a valorizzare le capacità e le
peculiarità di ciascuno.
Occorrerebbe una nuova etica del lavoro, tale da riconoscere
il ruolo e l’importanza di tale aspetto nella nostra vita, integrandolo nel
contempo con le altre dimensioni dell’esistenza. Insomma: potremmo darci
l’obiettivo di una maggiore libertà nel lavoro, al di fuori del lavoro e,
perché no, anche dal lavoro.
Un proposito troppo “lib” oppure troppo “lab”? Difficile
dirlo. Come arduo è insistere su una dicotomia in gran parte priva di senso. Si
può essere più sensibili alle istanze del lavoro o a quelle, magari, di chi
ancora non lavora stabilmente o non lavora più. Ma fare di ciò la principale
linea di frattura addirittura fra due sinistre sarebbe ingannevole e
pericoloso.
DANILO DI MATTEO
DANILO DI MATTEO
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