domenica 12 giugno 2011

IL REFERENDUM SU SANTORO

Mentre siamo chiamati a partecipare ad un referendum formale sulla gestione di un servizio pubblico, si sta svolgendo un referendum informale sulla gestione di un altro servizio pubblico. Apparentemente ha per oggetto Michele Santoro e la sua presenza in Rai. Ma anche a questo proposito la qualità del dibattito è desolante e gli argomenti messi in campo sono fuorvianti.
In entrambi i casi la colpa non è di “un popolo immaturo”, per citare il titolo con cui nel 1958 l’Espresso commentò il flop elettorale del partito radicale. La colpa è dei vertici istituzionali e politici che hanno la responsabilità di formulare i quesiti. I referendum sull’acqua sono palesemente manipolativi, secondo una discutibile prassi inaugurata vent’anni fa dalla Corte costituzionale; ma è manipolativo anche il referendum su Santoro. In questione, infatti, non è schierarsi a favore o contro il popolare conduttore, e forse neanche la compatibilità col servizio pubblico radiotelevisivo del format di cui egli è titolare. In questione invece è proprio il servizio pubblico ed il suo ruolo.
Abbiamo appena celebrato -giustamente- il novantesimo compleanno di Ettore Bernabei, ma non per questo dobbiamo nutrire nostalgia per una TV pedagogica, se non altro perché sarebbe fuori tempo. Tuttavia non possiamo neanche essere nostalgici della TV lottizzata con cui a metà degli anni ’70 si pose termine all’era di Bernabei, se non altro perché se ne sono estinti i protagonisti.
E poco importa se oggi i protagonisti della lottizzazione invece dei partiti sono gli anchormen: sempre lottizzazione è, come dimostra la battaglia che si sta svolgendo per espugnare o difendere “il fortino di Raitre”. Con l’aggravante che si tratta di una lottizzazione spuria e -quel che è peggio- punitiva per lo sviluppo della Rai e dell’intero sistema radiotelevisivo.
Possibile che i palinsesti della Rai debbano essere sempre uguali a se stessi, e che da una decina d’anni i telespettatori debbano sorbirsi le repliche -perché tecnicamente così vanno definite- di Fazio, della Dandini, di Floris, ma anche della Ventura e di Vespa? Forse non si può svincolare la Rai dalla schiavitù dell’Auditel, come auspica oggi Tullio Gregory sul Corriere. Ma se non serve ad innovare linguaggi e format, il servizio pubblico a che serve? 
LUIGI COVATTA

6 commenti:

  1. Ha perfettamente ragione Covatta a dire che la questione Santoro pone il problema del senso del servizio pubblico. A quel che abbiamo visto e sentito, si contendono due versioni. La prima, sostenuta da Vespa, è puramente aziendale: non esiste un’azienda editoriale nella quale un giornalista si permette di insultare prima il direttore generale e poi il presidente, senza che l’azienda stessa non prenda provvedimenti che ben possono arrivare all’espulsione del giornalista. La seconda, propria degli altri anchormen, obietta che non esiste un’azienda che liquida il protagonista di una trasmissione che fa schizzare verso l’alto gli indici dell’auditel come Anno Zero.
    Mi sembrano tutte e due versioni ipocrite. Parlano di “azienda” a proposito della RAI senza ormai nemmeno aggiungere che si tratta dell’azienda che ha in gestione il servizio pubblico. Forse non a caso, perché, se consideriamo questo piccolo particolare, la giustificazione di quanto accaduto diventa molto più complicata. “Libertà di informazione”, che in realtà si traduce in “lottizzazione degli anchormen” come dice Covatta, versus rispetto delle regole, che in realtà si traduce in libertà di un soggetto esterno all’azienda, il Presidente del Consiglio, di sbarazzarsi di un giornalista scomodissimo.
    Ma se questo è il dilemma, possiamo cavarcela con un né-né? Sarebbe giusto notare che un servizio pubblico-mastodonte ha senso solo nella logica del duopolio perverso che impazza da venti anni. E sarebbe giusto ricordare i progetti di parziale privatizzazione della RAI, e il famoso modello BBC. Ma per il momento siamo molto lontani da questi sbocchi. Nell’immediato, diventa casomai più interessante vedere quanto crescerà La7, e soprattutto se, crescendo, saprà restare un terzo soggetto. Perché, in tal caso, e forse solo in tal caso, il quadro cambierà davvero.
    Cesare Pinelli

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  2. Non si può difendere Santoro, secondo me, adducendo motivazioni aziendalistiche o commerciali (leggi introiti pubblicitari perduti), seppur realistiche: la RAI è “servizio pubblico” e dovrebbe poter prescindere da quest’ottica. Ma essa, sempre come “servizio pubblico”, dovrebbe altresì prescindere da un’ottica politica di lottizzazione o semplicemente di controllo da parte della maggioranza di governo: dovrebbe essere “istituzionale”, nel buon senso antico del termine.
    Tuttavia ritengo che la domanda da porsi, radicale, sia un’altra: che senso ha oggi, in un’epoca di pluralità e intensità delle fonti di informazione e anche di educazione e formazione, avere ancora un “servizio pubblico” facente capo ad un carrozzone statale sempre più in affanno? Non sarebbe più adeguato ai tempi privatizzare tutto ma all’insegna di un pluralismo liberale (e liberistico) vero, affidando allo Stato quella funzione di controllore del mercato e non di gestore diretto che ne esalta e non avvilisce il ruolo? Perché, ora che sta andando tutto in malora, non fare una proposta irrealistica forse, ma onesta (la politica è anche capacità di osare e di essere temerari al momento giusto): quella, cioè, di mettere sul mercato la RAI e vigilare affinché nella concessione delle frequenze non si creino posizioni dominanti o oligopoli e si contribuisca a ridimensionare quelli esistenti? Nulla vieterebbe poi che, così come giustamente ci sono leggi che danno aiuti e sovvenzioni, che dovrebbero (e purtroppo non sono) meritocratiche e non clientelari, a opere di spettacolo o di ingegno teatrale o cinematografico, altre se ne facessero o confermassero per remunerare scelte importanti ma certo non popolari come ad esempio quella di alcune emittenti (penso a Radio Radicale) di trasmettere con assiduità i dibattiti parlamentari
    In questi anni siamo riusciti a tenerci un “servizio pubblico” che pubblico è stato solo nel senso deteriore e negativo del termine, perché ha abituato gli italiani alla rissa e li ha disabituati all’argomentazione ragionata. Il problema vero che andrebbe sollevato non è né Santoro né Berlusconi, ma più in generale concerne, come ha detto in un articolo magistrale e controcorrente Emanuele Macaluso sul “Riformista” di qualche giorno fa, la cultura politica di massa che viene fuori da programmi come quello di Santoro, Floris, Vespa ed altri solo (unica eccezione forse la Gabanelli). La domanda ulteriore da farsi è perciò: qual è la “pubblica utilità” di una politica costantemente ridotta, in tv e oltre la tv, per dirla sempre con Macaluso, a permanente e irritante “processo del lunedì”?
    CORRADO OCONE

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  3. Non si può difendere Santoro, secondo me, adducendo motivazioni aziendalistiche o commerciali (leggi introiti pubblicitari perduti), seppur realistiche: la RAI è “servizio pubblico” e dovrebbe poter prescindere da quest’ottica. Ma essa, sempre come “servizio pubblico”, dovrebbe altresì prescindere da un’ottica politica di lottizzazione o semplicemente di controllo da parte della maggioranza di governo: dovrebbe essere “istituzionale”, nel buon senso antico del termine.
    Tuttavia ritengo che la domanda da porsi, radicale, sia un’altra: che senso ha oggi, in un’epoca di pluralità e intensità delle fonti di informazione e anche di educazione e formazione, avere ancora un “servizio pubblico” facente capo ad un carrozzone statale sempre più in affanno? Non sarebbe più adeguato ai tempi privatizzare tutto ma all’insegna di un pluralismo liberale (e liberistico) vero, affidando allo Stato quella funzione di controllore del mercato e non di gestore diretto che ne esalta e non avvilisce il ruolo? Perché, ora che sta andando tutto in malora, non fare una proposta irrealistica forse, ma onesta (la politica è anche capacità di osare e di essere temerari al momento giusto): quella, cioè, di mettere sul mercato la RAI e vigilare affinché nella concessione delle frequenze non si creino posizioni dominanti o oligopoli e si contribuisca a ridimensionare quelli esistenti? Nulla vieterebbe poi che, così come giustamente ci sono leggi che danno aiuti e sovvenzioni, che dovrebbero (e purtroppo non sono) meritocratiche e non clientelari, a opere di spettacolo o di ingegno teatrale o cinematografico, altre se ne facessero o confermassero per remunerare scelte importanti ma certo non popolari come ad esempio quella di alcune emittenti (penso a Radio Radicale) di trasmettere con assiduità i dibattiti parlamentari
    In questi anni siamo riusciti a tenerci un “servizio pubblico” che pubblico è stato solo nel senso deteriore e negativo del termine, perché ha abituato gli italiani alla rissa e li ha disabituati all’argomentazione ragionata. Il problema vero che andrebbe sollevato non è né Santoro né Berlusconi, ma più in generale concerne, come ha detto in un articolo magistrale e controcorrente Emanuele Macaluso sul “Riformista” di qualche giorno fa, la cultura politica di massa che viene fuori da programmi come quello di Santoro, Floris, Vespa ed altri solo (unica eccezione forse la Gabanelli). La domanda ulteriore da farsi è perciò: qual è la “pubblica utilità” di una politica costantemente ridotta, in tv e oltre la tv, per dirla sempre con Macaluso, a permanente e irritante “processo del lunedì”?
    CORRADO OCONE

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  4. Non si può difendere Santoro, secondo me, adducendo motivazioni aziendalistiche o commerciali (leggi introiti pubblicitari perduti), seppur realistiche: la RAI è “servizio pubblico” e dovrebbe poter prescindere da quest’ottica. Ma essa, sempre come “servizio pubblico”, dovrebbe altresì prescindere da un’ottica politica di lottizzazione o semplicemente di controllo da parte della maggioranza di governo: dovrebbe essere “istituzionale”, nel buon senso antico del termine.
    Tuttavia ritengo che la domanda da porsi, radicale, sia un’altra: che senso ha oggi, in un’epoca di pluralità e intensità delle fonti di informazione e anche di educazione e formazione, avere ancora un “servizio pubblico” facente capo ad un carrozzone statale sempre più in affanno? Non sarebbe più adeguato ai tempi privatizzare tutto ma all’insegna di un pluralismo liberale (e liberistico) vero, affidando allo Stato quella funzione di controllore del mercato e non di gestore diretto che ne esalta e non avvilisce il ruolo? Perché, ora che sta andando tutto in malora, non fare una proposta irrealistica forse, ma onesta (la politica è anche capacità di osare e di essere temerari al momento giusto): quella, cioè, di mettere sul mercato la RAI e vigilare affinché nella concessione delle frequenze non si creino posizioni dominanti o oligopoli e si contribuisca a ridimensionare quelli esistenti? Nulla vieterebbe poi che, così come giustamente ci sono leggi che danno aiuti e sovvenzioni, che dovrebbero (e purtroppo non sono) meritocratiche e non clientelari, a opere di spettacolo o di ingegno teatrale o cinematografico, altre se ne facessero o confermassero per remunerare scelte importanti ma certo non popolari come ad esempio quella di alcune emittenti (penso a Radio Radicale) di trasmettere con assiduità i dibattiti parlamentari
    In questi anni siamo riusciti a tenerci un “servizio pubblico” che pubblico è stato solo nel senso deteriore e negativo del termine, perché ha abituato gli italiani alla rissa e li ha disabituati all’argomentazione ragionata. Il problema vero che andrebbe sollevato non è né Santoro né Berlusconi, ma più in generale concerne, come ha detto in un articolo magistrale e controcorrente Emanuele Macaluso sul “Riformista” di qualche giorno fa, la cultura politica di massa che viene fuori da programmi come quello di Santoro, Floris, Vespa ed altri solo (unica eccezione forse la Gabanelli). La domanda ulteriore da farsi è perciò: qual è la “pubblica utilità” di una politica costantemente ridotta, in tv e oltre la tv, per dirla sempre con Macaluso, a permanente e irritante “processo del lunedì”?
    CORRADO OCONE

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  5. Sergio Zavoli ha recentemente ricordato che il pluralismo non è la somma di distinte faziosità. Ovviamente è giusto. Ma verrebbe da porsi la domanda: dove è vissuto finora?
    Purtroppo la somma di faziosità è esattamente la storia del pluralismo radiotelevisivo. Il punto è che ormai questa faziosità non è più inquadrabile nel vecchio concetto di lottizzazione partitica e ancor meno nello schema destra-sinistra, adoperato da chi sostiene che certa faziosità sia meno dannosa perché unica difesa contro lo strapotere di un soggetto politico che ha a disposizione il principale gruppo televisivo privato per esprimere la sua di faziosità.
    Liberatasi dai partiti, la parzialità è rivendicata come punto di vista di un giornalismo che preferisce emettere sentenze piuttosto che indagare, cercare di capire per poi spiegare e raccontare.
    Santoro e tutti i suoi corifei non sono funzionali alla sinistra o alla destra, a quel partito piuttosto che all’altro; ma soltanto alla radicalizzazione nella rappresentazione di ogni tema ed evento, all’enfatizzazione permanente, preferite al ragionamento logico e giustificate dalla teoria della spettacolarizzazione, grazie alla quale si cerca d’affermare che altre vie non sono percorribili.
    Santoro è forse la migliore espressione non della controinformazione ma dell’informazione-contro, che furbescamente cerca d’ergersi a paladina del quarto potere, mentre è assolutamente dentro il perimetro dell’autoreferenzialità politica.
    Santoro e il fortino di Raitre sono l’opposizione prediletta da Berlusconi, che ha tutto l’interesse a indicarli come i suoi principali antagonisti, convinto che questo compiaciuto caravanserraglio di professionisti dell’antiberlusconismo lo lasceranno più a lungo al centro della scena, permettendogli di associare alla loro parzialità chiunque tenti d’opporsi al suo potere.
    A subire Santoro e i suoi fratelli non è Berlusconi, che con essi ci marcia alla grande, bensì quanti vorrebbero spostare l’attenzione dalle grida ai fatti, dallo scontro all’analisi; quanti nella politica italiana non si accontentano d’urlare che “è tutto sbagliato, è tutto da rifare”, ma vorrebbero iniziare a ragionare.
    Prima che in RAI s’affermi un vento nuovo, in grado di pensare quei nuovi format e linguaggi auspicati da Covatta, è necessario che qualcuno dica con coraggio come occorra andare oltre Santoro (e tanti altri), l’unico modo per andare anche oltre Berlusconi.
    Carlo Sorrentino

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